Il complesso masserizio, intitolato a San Giovanni Monicantonio, è posto in agro di Campi a 7,5 Km dal centro abitato, lungo il tragitto Guagnano-Cellino San Marco (SP 104), nel luogo in cui, secondo il Tanzi e il De Giorgi, sino al 1325, esisteva una grancia basiliana. Le lontane origini di questo antico insediamento rurale, quindi, risalirebbero ad un periodo compreso fra metà del 700 e metà dell’800,
allorquando diversi gruppi di monaci in fuga dall’oriente a causa delle persecuzioni iconoclaste, si stabilirono nell’antica Terra d’Otranto; primo lembo di terra raggiungibile, per chi proveniva dalla sponda opposta dell’adriatico e dal bacino mediorientale del Mediterraneo. La migrazione determinò una vera e propria rinascita sociale, economica e culturale, del territorio locale.
In alcuni documenti storici, conservati presso il Centro Studi per la storia dell’Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni, sono segnalati, nel feudo in cui era ubicata l’antica abbadia, almeno per il 1301, diritti e pertinenze a beneficio del monastero benedettino dell’isola di San Pietro in Taranto. Successivamente, il feudo è compreso fra i beni del monastero benedettino di Sant’Andrea all’Isola in Brindisi. In uno scritto di Domenico Bacci, segretario di Mons Tommaso Valeri arcivescovo di Brindisi e amministratore perpetuo di Ostuni, dal 1910 al 1942, si legge: “L’attribuzione di questa terra al monastero di San Pietro in Taranto, deve essere nata per indicare che i basiliani erano in certo qual modo dipendenti da quell’illustre e protomonastero insignito per la sua supremazia del titolo di Imperiale dagli imperatori di Costantinopoli e i beni ad esso pertinenti erano”terrae imperiales” sebbene la sua dipendenza diretta ed immediata fosse dall’abbazia di Sant’ Andrea dell’Isola in Brindisi”. La seguente iscrizione: “Michael de Vicetibus sedi – Aplice Protonotar ac Aba – Sacti Andree de Brudisio apu – Dametis erexit ano dn MCXXVII”, incisa su lastra in pietra, rappresenta un ulteriore documento che attesta come la zona corrispondente al feudo di San Giovanni, fosse appartenuta all’abbazia di Sant’Andrea dell’isola in Brindisi. La stele fu recuperata, quando ormai dell’edificio di cui faceva parte, probabilmente un luogo sacro ricostruito nel 1527, rimanevano pochi scampoli della facciata, riconoscibile dai segni di un antico portale. L’importante documento lapideo, è rimasto custodito, sino al 1953, in casa dell’Avv. Angelo Bari. Fu, poi, venduto al Dott. Gigi Scupola di Specchia, all’epoca dei fatti, convittore presso il collegio “Calasanzio” degli Scolopi. Oggigiorno, dell’antica grancia basiliana non è rimasto nulla, se non gli ambienti e i ruderi di masseria, di proprietà del sig. Francesco Laguardia di Fasano. Da una planimetria in scala 1:100, datata: Lecce 21 luglio 1897, è possibile, tuttavia, risalire alla originaria tipologia architettonica della masseria Monicantonio, che è quella delle masserie a “corte”, tipica salentina, intendendo per corte quello spiazzo interno, intorno al quale si affacciavano le stalle, i locali di servizio, il forno, le abitazioni dei proprietari. Sulla planimetria, inoltre, è riportata, al di fuori del nucleo centrale della masseria, una cappella, della quale oggi resta soltanto, un frammento di icona murale, probabilmente parte di un abside, con tracce di affresco sbiadito di chiara derivazione bizantina.
Un contributo rilevante nel cammino della ricostruzione storica del sito, in cui oggi si trovano pochi superstiti frammenti dell’antica masseria “Monicantonio”, proviene dalle ricerche condotte, per lungo tempo dal Prof. Alfredo Calabrese; straordinario raccoglitore e profondo conoscitore di “cose” salentine. L’illustre concittadino, grazie al suo determinante e indiscusso dinamismo organizzativo, rinvenne nel 1964, alcuni interessanti reperti, nei pressi della masseria anzidetta. Furono portati alla luce: parti di colonne scanalate; frammenti di capitelli; resti di cippi funerari; una parte consistente di testa marmorea, appartenente ad una statua raffigurante una dea Venere. Ulteriori ricerche, sempre condotte dal Prof. Calabrese, permisero, nel gennaio 1983, l’identificazione di un altro prezioso documento lapideo, inciso da una iscrizione funeraria redatta in alfabeto messapico. La stele, posta all’interno di un vecchio casolare della zona, proveniva sicuramente da una tomba “intra moenia”, nella quale era stata sepolta una fanciulla, sacerdotessa di Afrodite.
L’epigrafe è classificata nel 3° volume: “Nuovi Studi Messapici” (Congedo Editore 1984) con la sigla IM 33.1.1, avente il seguente significato: IM sta per iscrizione messapica; 33 indica la città di Campi, ovvero la trentatreesima località della Messapia ad aver dato documenti riconducibili alla antica civiltà messapica; il primo 1 indica che l’epigrafe è la prima rinvenuta nella località suddetta; l’altro 1 indica che l’epigrafe è conservata in originale. Sia il frammento di testa marmoreo che l’epigrafe messapica, sono oggi custoditi presso il Museo Archeologico Nazionale di Taranto. Tanta ricchezza di risultanze e di notizie apprese qua e là, attraverso testimonianze dirette, dalle pagine di scrittori locali, su giornali e riviste più o meno recenti, in polverosi documenti d’archivio, hanno permesso di identificare nel territorio a nord di Campi, un’area culturale che avrebbe avuto un ruolo di primissimo piano nell’ambito delle manifestazioni culturali messapiche e dei rapporti con il mondo ellenico, tra il VII e l’inizio del VI sec. a.C. In questo periodo sarebbe avvenuto un vero e proprio processo di sviluppo sociale e culturale della comunità autoctona, a seguito di contatti e rapporti con i Greci di provenienza coloniale ed egea. Tali influenze avrebbero determinato, inoltre, forme di coesistenza con elementi greci, alcune delle quali sono riconducibili alla documentata presenza nella zona, di un santuario dedicato al culto pagano di Afrodite dea dell’amore, nel quale alcune donne, appartenenti ai “ceti alti” della società, diventarono sacerdotesse. Ad un tempio greco di culto pagano, pertanto, sarebbero appartenute le due colonne inserite nei muri perimetrali della chiesa della Madonna dell’Alto, sulle quali poggiano, anzi poggiavano, gli archi a tutto sesto che, sino alla fine della prima metà del seicento, immettevano in due ambienti laterali. L’attendibilità di questa ipotesi è legata a quanto è stato affermato, al riguardo, da autorevoli studiosi di storia locale, del calibro del Prof. Paolo Agostino Vetrugno, il quale in un suo scritto pubblicato nel 1985, dal titolo: “S. Maria dell’Alto storia-tutela-conservazione”, riporta testualmente: “Gli archi, che immettevano in due ambienti laterali, sino a quasi la metà del secolo XVII, poggiano su due colonne, una per parte, di carparo scanalate a metà, con capitello dorico, appartenenti quasi sicuramente ad un precedente edificio ubicato nella zona”. Alla luce di quanto fin qui esposto, si può ipotizzare, con ragionevole attendibilità, che durante la realizzazione dell’impianto originario della chiesa intitolata alla Madonna dell’Alto, avvenuta secondo lo storico Jurlaro tra il VII-VIII secolo d.C su un precedente insediamento di epoca romana, fossero stati riutilizzati materiali provenienti dai ruderi di un’altra costruzione, di epoca precedente. Per la posizione in cui sorgeva a ridosso del “Limitone dei Greci”, inoltre, l’edificio successivamente dedicato al culto mariano, avrebbe svolto, inizialmente, la funzione di “Chiesa Castrense”, ovvero un insediamento militare costruito con il preciso scopo di difendere il dominio bizantino, rappresentato dalle città di Otranto, Castro, Gallipoli e tutta la piana salentina, dalle continue incursioni delle milizie longobarde. Il presente lavoro è, in gran parte, frutto di una operazione di ricognizione e di assemblaggio di alcuni dati emersi dal lavoro accurato di ricerca e di studio condotto in loco dal Prof. Alfredo Calabrese; instancabile ricercatore della storia e della bellezza di questo territorio, al quale va un particolare pensiero di gratitudine, per la pazienza dimostrata nell’accogliere le insistenti richieste. Un particolare ringraziamento, va anche all’avv. Angelo Bari, all’avv Tonino Guarino, alla prof.ssa Annalisa Bari per la cordialità e la disponibilità fornite, nella raccolta di alcune preziose informazioni. Attraverso questo scritto, non c’è quindi la presunzione di voler dire cose nuove; si tratta al contrario di informazioni già note, suscettibili di essere ampliate e arricchite dall’analisi di ulteriori documenti, sfuggiti a questa indagine. La sua funzione, in altri termini, vuole essere soprattutto quella di stimolare altri a fare di più e meglio, al fine di promuovere la conoscenza di uno dei siti, dal punto di vista storico e culturale, più interessanti del nostro territorio.
di Antonio MINELLI
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