“Orazio Zappo non aveva neanche 20 anni quando scrisse il suo nome, il giorno in cui aveva deciso che sarebbe andato in guerra contro i turchi. Era un ragazzo colto e semplice, il figlio del nachiro del frantoio del Borgo dei Protonobilissimo. La sua risata era contagiosa, quando si sedeva al tavolo e si mangiava tutti insieme in un unico piattone di creta, servendosi con uno spicchio di cipolla tagliata a mò di cucchiaio. Che il pasto sarebbe stato poco o molto, gustoso o insipido, lui avrebbe sempre tirato su il tono dei commensali, in ogni modo. Alla fine, come ogni volta, si sarebbe mangiato pure la sua… posata!
Era cresciuto in seno a una famiglia molto devota a Dio. L’aveva tirato su sua nonna Nerina, perché la madre gli era morta di malattia, ma non gli era mancato l’affetto materno, per tutta l’infanzia. Nerina lo scrutava discreta per tutto il giorno, quel ragazzo super attivo, poi verso sera avvicinava Orazio e gli diceva: Non mi è piaciuto questo e questo, poi hai detto delle parole brutte in questa e quell’occasione. Fatti un Ave Maria e un Padre Nostro. “Sine, sine”, rispondeva lui, ancora indaffarato. “E va bene… fatti almeno il segno della croce, prima di coricarti”, sentenziava lei dolce dolce. Era una brava donna, aiutava le persone, si fidava della loro bontà, se versavano in condizioni difficoltose, pagava loro le tasse. Non si curava se poi non avrebbero assolto al loro debito. Il suo era un dono, ci azzeccava sempre. Tanta altra brava gente finì in miseria, per essersi fidata delle persone sbagliate. Capitò a tanti, anche a quel grand’uomo di Giangiacomo dell’Acaya, oppure a Felice Desa di Copertino, il papà di Giuseppe, il Santo dei voli. Ma a nonna Nerina mai. E in qualche modo trasmise al nipote una sorta di facilità decisionale che avrebbe conservato per tutta la vita. L’infanzia di Orazio era stata svelta e vissuta. Il ricordo più antico che aveva nella mente era il grido di un ragazzino che rientrava precipitosamente al Borgo, correndo verso la madre. Urlava: “Mamma! Li turchi!”.
Quei predoni erano sbarcati a Torre Colimena, e avevano depredato S. Pancrazio, facendo una strage. Nessuno sapeva dove si sarebbero diretti, quale villaggio avrebbe pagato, per la sua unica colpa di vivere di questa terra. Il pericolo dei turchi accompagnò tutta la sua gioventù. Per questo, all’inizio, aveva una venerazione per l’imperatore, Carlo V, l’unica luce da opporre ai barbari. Andava sempre a Lecce, sotto l’arco di trionfo che avevano costruito per lui, per vederlo.
Ma l’imperatore non venne mai. Anzi, per Orazio fu un vero choc quando quello abdicò il trono, dichiarò che il suo sogno era crollato e si ritirò a vivere in convento. L’impero su cui “non tramontava mai il sole” non era riuscito a scongiurare l’incubo turco. L’amore della sua vita era Cosima, lo sapeva Orazio, con la certezza che hanno solo certi visionari. Solo che lei era ancora troppo piccola, per i suoi, e i due innamorati dovevano aspettare, per realizzare il loro sogno e costruire una famiglia. Dovevano aver pazienza, e nel frattempo cantavano: “Mamma non vuole, papà nemmeno, come faremo a fare l’amor?”… Orazio era bis nipote di un sapiente monaco che a suo tempo aveva fatto la storia di Casole. E questi era stato intimo amico di Matteo Tafuri, un Leonardo da Vinci salentino, che frequentava le corti europee, il papa, e pure era tacciato di stregoneria. Sull’uscio di casa sua, Matteo aveva scritto a chiare lettere: “Umile sono e l’umiltà me basta. Ma drago diventerò se alcun me tasta”.
Anche Orazio aveva quella tempra e quella cultura. Pur essendo contadino nell’anima e seguitando a vivere lavorando la terra e le olive, aveva sempre studiato. Fino a un certo punto. “Ho imparato quanto mi serviva dallo studio, ora seguirò a studiare la semplicità di Gesù. Preferisco bere in una coppa di falegname, che in una tempestata di diamanti”. Non aveva la vocazione del prete, però li difendeva con fervore, loro e le loro semplici tuniche disadorne. Scriveva: “Un tempo nacque la Cavalleria. La Storia, con l’aiuto della Leggenda, ha tramandato solo le figure possenti e generose dei Cavalieri. Nei sotterranei delle sue memorie, però, vive una piccola cerchia di Cavalieri Silenziosi, di cui nessuno parla mai. Eppure anch’essi avevano la loro Tavola Rotonda, e ideali giganteschi, e sacro e furibondo amore che scorreva col sangue nelle loro vene. Questi erano i frati amanuensi. E quando il mondo crollò, fra le macerie e i roghi scatenati dalle invasioni barbariche, questi salvarono tutto ciò che poterono della cultura millenaria del Mediterraneo. Pergamene, papiri, Omero, Virgilio, Eschilo. E tutto, ricopiarono.
Con cura, incrollabile pazienza. Al buio dei loro sotterranei, mentre fuori il mondo delirava. Finché arrivarono i nuovi barbari, e distrussero anche gli amanuensi”. Orazio, aiutando i frati, aveva ritrovato frammenti, di antiche, tremende battaglie, storie di un tempo dimenticato… “Lo sapevo da sempre. Me l’avevano predetto come sarei morto. Non capivo. Loro”… Lui era un albero, sereno, quasi incosciente. C’era posto per qualsiasi peso fra i suoi rami. Non avrebbe gettato via nessuno, tutti potevano salirci sopra, finché c’era posto. Perché potare un albero? Gli alberi vivono sul mondo da inconcepibile tempo prima dell’arrivo degli uomini. E la loro vita è sempre stata quella: crescere, crescere verso il sole, nel cielo, alzarsi fino a morire d’amore, stracolmo di rami, foglie, fiori e frutti. Di quel peso, morire. Perché privarsene? E’ una morte meravigliosa, quella cui tendono senza neanche pensarla: un’esplosione d’amore, come fu l’inizio di tutto. La loro è una saggia, innata fede. Fanno scorrere la loro linfa, come un fiume lungo il suo corso, verso la foce. Accettandosi. Sotto il cielo. Come un albero.
Il Cavaliere Legnoso morì in una tremenda battaglia del grande Re Artas contro i Greci, difendendo vittoriosamente la sua terra fra i due mari. Morì, sostenendo di peso tutti i compagni feriti. Ricevendo la fatale lancia mentre era con le braccia al cielo, alzando un amico caduto. Colpito da un vigliacco che aveva deciso di potarlo… Venne poi il Tempo in cui Orazio poteva chiedere in moglie Cosima. Però venne anche quello della Crociata, invocata dal papa, della Cristianità contro l’impero del Male: i turchi. Improvvisamente, ad Orazio vennero le gambe molli. Per sposarsi. Prima voleva adempiere al suo dovere, altrimenti non avrebbe potuto sposarsi e fare figli, non ce l’avrebbe fatta. Doveva prima andare in guerra. Ed era una battaglia che aveva il sapore dell’antichità, quella che si profilava all’orizzonte. Alì Pascià si apprestava a sferrare l’attacco risolutivo all’Europa, al comando di 265 navi da guerra e 100000 satanassi disposti a tutto pur di assecondarlo. Alì Pascià conservava con sé in una teca di cristallo, il dente canino destro di Maometto: non avrebbe mai potuto conoscere la sconfitta. Dall’altra parte, Don Giovanni d’Austria, il figlio di Carlo V, cercava di mettere insieme almeno pari forze in campo, anche se sarebbe stato molto difficile. Ma questa guerra l’avrebbe vinta chi si sarebbe spinto più in là nel valore e nella fede. Orazio doveva esserci. “So che il Signore non è d’accordo, ma io parto lo stesso… Pecco, ma preferisco morire peccatore, che vivere santo coi miei figli e la moglie uccisi dai turchi”.
Era il 18 dicembre 1569. Lo scrisse, sulle mura di San Nicola di Casole, a Otranto, davanti al mare incombente.
“Sono un uomo. Fra tutti i miei sbagli, Dio saprà trovare i miei pregi, e uno straccio di motivo per mandarmi al Purgatorio”. Sparsasi la voce della sua partenza, un ragazzo venne da lui da S. Marzano. Gli portava in dono una spada. Era quella che Giorgio Castriota Skanderbeg diede a suo figlio, per continuare la resistenza contro i turchi, e con la quale, Giovanni, suo figlio, non riuscì nell’intento. Respinto quasi subito dai musulmani. Quella spada si era tramandata fra i discendenti, senza più trovare sangue di combattente.
Così era pure quel ragazzo, un pacifico pastore, conscio però della sua storia: “Non voglio che si ripeta, qui”. Orazio prese quella spada. Poi non ebbe altro pensiero che prepararsi alla spedizione. Tutta l’Europa lo stava facendo. 80000 giovani si stavano radunando a Messina, dal cui porto sarebbe salpata la flotta. Tutto l’anno successivo fu un lungo preparativo. Orazio partì da Gallipoli e si presentò, con la nave dei Protonobilissimo. A Messina fu addestrato all’uso dell’archibugio. Solo a quello, perché di ciò che riguardava il mare e la nave era maestro. Come passava sei mesi l’anno sotto terra nel suo frantoio, ne passava altrettanti in mare con la sua barca. Qui fece amicizia con un cavaliere spagnolo, tale Miguel de Cervantes, con cui ebbe tale comunione da diventare amici inseparabili. Miguel gli raccontava sempre delle avventure di un certo Chisciotte, un cavaliere pazzo del suo paese, nella Mancia, e a Orazio, proprio, veniva di morire dal ridere. Era di carattere gioviale, gli piaceva divertirsi, ma quei racconti lo facevano andare fuori di sé. Rideva in maniera così sguaiata, che alla fine convinse quel Cervantes a scriverli, quei racconti, a non tenerseli per sé, e pubblicarli. Ai primi di ottobre, dell’anno del Signore 1571, si cominciò ad armare le navi. Poi venne la partenza. Il tremendo scontro avvenne il 7 ottobre, sulle acque di Lepanto.
Uno scontro fra due popoli che non avrebbero mai potuto convivere, devastati da un odio di razza e religione che li consumava fino alla fine, tutti, vivi o morti ne fossero usciti. In 35000 finirono in mare, uno specchio d’acqua rosso corallo, che alla fine ricacciò i turchi oltre l’adriatico. Il loro sogno espansionistico fu distrutto per sempre, l’Europa era salva. Gli 800 e più martiri d’Otranto, vendicati. Giorgio Castriota Skanderbeg ancora vincitore, con quella spada nelle mani di Orazio. Cosima lo aspettava a braccia aperte, gli corse incontro quando lo vide sulla strada verso il Borgo. Si sposarono, e finalmente fecero l’amore. E una casetta di pietra. E cinque figli. Orazio si poté dedicare al lavoro che più gli piaceva, lavorare la terra. L’amata sua terra rossa, che lo sostentava. Ma non lasciò il suo posto di nachiro, al trappeto del Borgo. Trent’anni dopo, rievocò la storia di quella battaglia, incidendola sul muro del suo frantoio, affinché il ricordo non si affievolisse.
Era l’anno 1602.
Di lì a poco, Orazio visse un momento di crisi, avanzando con l’età, impaurito di non essere più utile, di non servire più a nulla. Lui continuava a fare il nachiro… “Che senso avrebbe uscire adesso? Se esco adesso sarei solo un vecchio. E io voglio restare nachiro. Tutti mi vantavano questo trappito, ma me lo vantava chi non c’era mai stato. Il primo giorno perdi il sonno. Il secondo giorno perdi l’appetito. Il terzo ne trovi uno steso. Di 17 palmi di lunghezza”… Orazio andava avanti anche quando le forze non bastavano.
Un giorno inciampò e cadde malamente nella grande vasca in mezzo alle olive. L’asino, tirando la grande ruota, stava per schiacciarlo, quando all’improvviso all’animale cadde la benda che gli copriva gli occhi, e questi si fermò, osservando qualcosa verso l’alto. Orazio strabuzzò gli occhi incredulo: vide un frate, sospeso in volo, lassù, sopra di loro: a braccia aperte, in atteggiamento protettivo.
Balzò fuori dalla vasca, e da quel giorno lasciò il frantoio. Passò il resto della sua lunga vita, con la sua brava vecchietta, coltivando l’orto e raccontando ai nipoti di questa sua terra che era il centro del mondo”.
Questo breve racconto (tratto dal romanzo “L’Alba del Difensore degli uomini”) è frutto di fantasia, e sfrutta le bellezze del Salento, la sua tradizione, ed una traccia, quell’epigrafe sui muri di San Nicola di Casole a Otranto, di quelle che neanche l’Archeologia può fare molto per raccontarne il significato. Quest’uomo misterioso che si firmò sui muri della celeberrima San Nicola di Casole quando l’antica biblioteca otrantina (e proto campus universitario ante litteram) era già stata ridotta ad un rudere dai Turchi, mi ha sempre attratto come una ricerca dell’identità di un antenato. “Fu qui”, scrisse, nel 1569, col suo nome. La forma dello scudo è compatibile con la datazione incisa. Molto interessante il fatto che per realizzare l’iscrizione “memoriale” si sia scelto come contorno uno scudo a testa di cavallo, tipicamente rinascimentale, il che porta a pensare che il nostro personaggio non avesse uno stemma vero e proprio. Chi era? Ho cercato ovunque tracce del suo cognome. L’unica assonanza che ho riscontrato l’ho trovata in rete, ed è la seguente:
Poi, sul teatro araldico del Tettoni, i Del Zappo sono una famiglia patrizia bergamasca feudataria di Monte Donato e del Castello del Vescovo. E’ un testo digitalizzato da GoogleBooks custodito nella Biblioteca del Museo Civico di Cremona, e da anni a questa parte non ho trovato null’altro.
Del resto non è detto che di ogni cosa antica ci sia traccia nelle fonti. E’ questo graffito che è una fonte esso stesso. E quest’uomo, chiunque egli sia stato, volle lasciare traccia di sé, fare memoria di se stesso. In questi casi un romanzo si può sbizzarrire! Infatti, solo il personaggio di Orazio è inventato, tutta la vicenda è verità storica tramandata da fonti. Ma per quanto riguarda il protagonista, visto che di lui esiste solo il nome, per assurdo la sua storia che ho inventato potrebbe anche essere vera! Per chi fosse interessato a leggerlo, il romanzo ora esiste solo SU AMAZON, si intitola “L’Alba del Difensore degli uomini”, si può richiederlo CLICCANDO QUI oppure scrivendo alla mail sandrolento@gmail.com. Nel 2022 la saga si è ampliata di un nuovo capitolo, dove Orazio fa da co-protagonista nel romanzo HIPPIKON (clicca qui per info da Amazon). Per chi ha voglia di vedere il film che abbiamo realizzato di questa storia, è qui di seguito.
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