Acquarica del Capo. Lungo le Serre che si distendono a sud verso l’arco ionico della penisola salentina, dopo la distruzione saracena dei limitrofi casali di Pompignano, Ceciovizzo e Cardigliano, nel X secolo, assunse il ruolo di centro dominante Acquarica del Capo, sul cui stemma compare una fontana d’oro zampillante acqua,
segno inequivocabile della disponibilità di questo territorio ad essere colonizzato sin dall’antichità, così come testimoniato dai reperti neolitici rinvenuti nella caverna della Madonna della Grotta.
In un terra fuori dal tempo e dallo spazio, sferzata dal vento e arsa dalla canicola estiva, nel 1190 fecero la loro comparsa i Normanni che detennero il feudo fino a quando non lo concessero ai Guarino ai quali seguirono i Securo, i Delli Falconi, i Centellas e i D’Aragona fino ai Zunica.
Nel segno dei tempi, dettati da arditi esperimenti di architettura militare, il loro potere feudale ruotò intorno al maestoso castello fortemente voluto dalla famiglia normanna dei Bonsecolo. Nel 1342, sotto il principato di Giovanni Antonio Del Balzo Orsini, il maniero venne ristrutturato, assumendo la conformazione a pianta quadrangolare.
Successivamente andò incontro alla netta demarcazione tra il piano inferiore, destinato a magazzini e stalle, e quello superiore riservato a dimora gentilizia ingentilita con fregi scolpiti a cavallo tra il 1600 e il 1700.
Delle quattro torri circolari, collocate originariamente agli spigoli, ne rimane soltanto una, chiusa nel suo contegno austero. Questa struttura di avvistamento e difensiva, eretta probabilmente fra il 1432 e il 1445, costituì un vero prototipo di difesa contro le rudimentali armi da fuoco che si profilavano all’orizzonte in concomitanza della rivoluzione nel modo di guerreggiare. Tra una battaglia e un’altra feudatari e soldati si riunivano per elevare una preghiera all’Altissimo per essere scampati al pericolo o a chiedere perdono per i peccati commessi nella chiesa di S. Francesco, prescelta anche come cimitero, così come documentato dalle tombe emerse nel corso di scavi occasionali.
Nella quiete di un borgo fuori dal mondo a partire dal 1619 la popolazione poté recarsi nella chiesa intitolata a S. Carlo Borromeo per assistere alle funzioni religiose celebrate solennemente dai sacerdoti posti alla guida del gregge che scelse il vescovo milanese, canonizzato nel 1610, come patrono.
Nel 1661, a causa del crollo del campanile, furono eseguiti certosini interventi di natura statica e ornamentale che riguardarono l’altare maggiore cesellato nella pietra. Nel 1664 all’interno della chiesa fiorì nella pietra la cappella dedicata all’Annunciazione di Maria. Il committente, Giovanni Antonio de Capo, oltre all’altare privilegiato si adoperò anche per assicurarsi un luogo di sepoltura gentilizia. Nel Settecento, in prossimità del pulpito ligneo, venne installato un pregevole organo a canne.
Nonostante i rimaneggiamenti, dovuti soprattutto allo smantellamento e al rifacimento del pavimento, gonfiato a causa dei miasmi delle sepolture sottostanti, continuano a rifulgere di luce propria gli altari di S. Carlo Borromeo, dell’Immacolata ed in modo particolare quello della Madonna del Rosario, contornato dai medaglioni recanti i misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi nel solco del culto, che affonda le radici nella battaglia di Lepanto vinta dai Cristiani non solo con le armi, ma anche con la recita della corona del rosario.
Appena fuori dall’abitato sorgeva un tempo la minuscola chiesa dedicata alla Madonna dei Panetti, la cui etimologia del nome deriverebbe dalla consuetudine, risalente agli inizi del XVIII secolo, di distribuire ai poveri e ai bisognosi alcuni panetti impastati con il grano mietuto nei campi ricadenti nei beni della Chiesa. L’interno a doppia abside, esempio più unico che raro nel Salento, venne affrescato con un ciclo pittorico databile a partire dal 1200. In una delle due absidi venne raffigurato S. Giovanni Battista, precursore della venuta del Messia, riconoscibile per l’iscrizione in greco inserita in un cartiglio “Io sono la voce di colui che grida nel deserto”, mentre nell’altra vennero affrescate figure di santi ormai sbiadite.
Accanto a quella che può essere considerata a pieno titolo come una delle chiese più antiche del Basso Salento operò un frantoio ipogeo, che, insieme agli altri, almeno nove, sparsi sul territorio, realizzati tra XVI e XVIII secolo, garantiva la sopravvivenza ancorata da sempre ad un’attività prevalentemente agricola.
Al frantoio si accedeva attraverso una scala, voltata a botte, lungo la quale erano collocate le vasche per il deposito delle olive in attesa della molitura.
Nell’ambiente successivo si eseguiva la spremitura, ricorrendo all’impiego di tre torchi alla calabrese prima dello smantellamento avvenuto agli inizi del Novecento a causa delle scarse condizioni igieniche di nachiri e frantoiani condannati a vivere insieme agli animali nel ventre della terra.
In un contesto economico rurale a un tiro di schioppo sorgeva la masseria fortificata di Celsorizzo protetta da una mastodontica torre quadrata a tre piani, nettamente scarpata e munita di feritoie e caditoie. Bastava salire in cima al fortilizio per dominare in lungo e in largo tutto il territorio circostante, sorvegliato a vista di notte e di giorno nell’eventualità non molto remota di assalti di predoni, anche dalle torri e dai terrazzi sommitali delle masserie Colombo e Baroni. Tra le mura della superba torre di Celsorizzo nel XIII secolo venne consacrata al culto una cappella intitolata a S. Nicola di Myra, recante gli affreschi del Cristo Pantocratore, S. Giovani Crisostomo, l’Ultima Cena e i Santi Cosma e Damiano, miracolosamente scampati, perché obliterati da archi in pietra costruiti per garantire la tenuta strutturale del soffitto che minacciava cedimenti statici. Accanto a questo mirabile presidio difensivo si sviluppò sino all’Ottocento il complesso masserizio gravitante intorno ad una corte interna racchiusa in un’ardita geometria di archi fluttuanti nell’aria, ma pur sempre aggrappati tenacemente alla loro esilità terrena.
Nel 1550 Fabrizio Guarino volle imprimere un segno del suo potere e della sua casata, costruendo una torre colombaia a pianta circolare, così come recitava l’epigrafe ormai erosa: FABRICIUS GUARINUS COLUMBARIUM HOC FRUCTUS AUCUPANDIQUE CAUSS CONSTRUXIT SIBI SUIS AMICISQUE ANNO DOMINI MDL (Fabrizio Guarino fece costruire questa colombaia per sé e per i suoi amici per diletto di caccia nell’anno del Signore 1550).
Nella smania di costruire nella pietra da parte dei feudatari si celava il sudore della fronte del duro lavoro dei campi da parte dei villani, condannati a raccogliere le olive sotto la pioggia e a mietere il grano sotto il sole, ma ostinati a non rimanere schiacciati sotto il peso dell’aratro nel quotidiano rito di dissodare la terra. Una terra, ricca di fiori, frutti e piante quella di Acquarica, resa fertile dalla falda freatica traboccante di acqua in un Salento assetato.
testo di Lory Larva
fotografie di Alessandro Romano
FOTOGALLERY ACQUARICA DEL CAPO
La Madonna della Grotta (vedi reportage completo QUI).
Acquarica custodisce alcuni dei pagliaroni più grandi del Salento (reportage QUI).
© Questo sito web non ha scopo di lucro, non userà mai banner pubblicitari, si basa solo sul mio impegno personale e su alcuni reportage che mi donano gli amici, tutti i costi vivi sono a mio carico (spostamenti fra le città del territorio salentino e italiano, spese di gestione del sito e del dominio). Se lo avete apprezzato e ritenete di potermi dare una mano a produrre sempre nuovi reportage, mi farà piacere se acquisterete i miei romanzi (trovate i titoli a questa pagina). Tutto ciò che compare sul sito, soprattutto le immagini, non può essere usato in altri contesti che non abbiano altro scopo se non quello gratuito di diffusione di storia, arte e cultura. Come dice la Legge Franceschini, le immagini dei Beni Culturali possono essere divulgate, purché il contenitore non abbia fini commerciali. I diritti dei beni ecclesiastici sono delle varie parrocchie, e le foto presenti in questo sito sono sempre state scattate dopo permesso verbale, e in generale sono tutte marchiate col logo di questo sito unicamente per impedire che esse finiscano scaricate (come da me spesso scoperto) e utilizzate su altri siti o riviste a carattere commerciale. Per quanto riguarda le foto scattate in campagne e masserie abbandonate, se qualche proprietario ne riscontra qualcuna che ritiene di voler cancellare da questo blog (laddove non c’erano cartelli o muri che distinguessero terreno pubblico da quello privato, non ce ne siamo accorti) è pregato (come chiunque altro voglia segnalare rettifiche) di contattarci alla mail info@salentoacolory.it
Iˇve learn a few good stuff here. Certainly worth bookmarking for revisiting. I surprise how a lot effort you place to make one of these great informative site.