I fulgidi anni del Rinascimento hanno lasciato in Italia ancora oggi traccia del loro splendore.
In quell’aureo periodo, menti illuminate hanno posto l’uomo al centro dell’universo e guidato lo sguardo di intere generazioni, riportando alla luce i testi dei grandi pensatori antichi, Greci e Romani, e dando nuova linfa all’avanzare delle arti, delle scienze, dell’architettura. I luoghi prediletti di questi uomini erano, come fu per gli antichi, i ninfei. Fra le città italiane, Lecce conserva ancora numerose tracce della presenza di questi luoghi, e le ritroviamo fuori le mura urbiche, entro cui ancora alla fine dell’Ottocento la città era chiusa. Nel XVI secolo, i nobili eressero le loro dimore nella tranquillità della campagna, per ricreare il clima arcadico cui aspiravano. Una delle più fastose era Villa Della Monica, sorta fuori l’antica porta di San Martino, nel 1564, ed oggi inglobata nel convento dei Frati Minori dedicato a Sant’Antonio di Padova. Un’iscrizione posta nel torrino di avvistamento della villa, reca la parola “Tetragrammaton”, che molti studiosi traducono come “colui che porta all’esistenza ciò che esiste”, un “divenire”, “avvenire”, “esistere”, che denota il desiderio di elevazione spirituale cui anelava il proprietario di questo luogo, Fulgenzio Della Monica, che qui si circondava delle migliori menti della città, per discutere delle vette del pensiero dell’epoca, di modelli culturali, politici, amministrativi. Si trovano analogie della villa con quelle venete, fiorentine e laziali, il che mostra come velocemente viaggiavano le idee, anche a quei tempi. Il ritrovamento di due forni fanno supporre che, come nelle ville romane di Pompei, il grande salone al primo piano era riscaldato. La villa aveva una chiesa, dedicata ai Santi Filippo e Giacomo, eretta accanto al portale di accesso alla villa. Il valore del giardino è ancora più grande tenuto conto che le fonti seicentesche parlavano già del grande agrumeto presente all’interno, e che è rimasto presente ancora oggi. Ma il gioiello di questa struttura è il ninfeo, rimasto per secoli abbandonato e dimenticato, finché nel 1990 un saggio di Giacomo Mazzeo non lo riportò alla conoscenza di tutti. I Frati hanno ripristinato il suo antico splendore, ed oggi il complesso è visitabile a tutti. Quando vi si accede, ci si trova davanti questo imponente tramezzo a tre porte centinate, decorato da rose ed un bugnato a punte di diamante, tutto ricavato da abili artigiani nella morbida pietra leccese. Sembra di attraversare l’iconostasi di una chiesa rupestre bizantina, un’aura quasi sacrale avvolge ogni passo, varcando questo accesso. Sulla volta, sulle pareti, è un turbine di conchiglie e di raffigurazioni simboliche. Sulla parete di fondo ci sono tre nicchie, sovrastate da grandi valve, in cui all’epoca sgorgava l’acqua tramite tre fontane, che veniva convogliata nella grande vasca circolare posta al centro, nel cuore di questo ambiente. Agli angoli, grandi foglie d’acanto stilizzate, sul soffitto campeggia la sirena a due code, una chimera, ed altre figure oggi deteriorate ma che probabilmente richiamano i miti della classicità tanto amati dal proprietario della villa. Un’aquila a due teste sembra omaggiare l’imperatore Carlo V, il cui stemma sormonta anche la porta monumentale della città. Dall’altra parte di Lecce, sempre fuori le mura, sorgeva ieri come oggi un altro luogo che è stato recentemente riportato a nuova vita, masseria Tagliatelle, anch’essa una dimora cinquecentesca. Scavato nella pietra leccese, si mostra un altro incantevole ninfeo, oggi noto come “delle fate”, per via di queste deliziose figure di fanciulle, che altro non sono che le Nereidi di memoria greca, le ninfe delle acque. Sull’architrave di accesso al luogo un tempo si leggeva ancora il nome delle ninfe e di Pomona, la dea dei giardini. La vasca qui è scomparsa, ma nelle nicchie con le grandi conchiglie, le foglie di acanto, si ripropone lo stesso fascino di Fulgenzio. Oltre i bastioni delle mura urbiche, sorge il convento degli Olivetani. E’ qui che, probabilmente ricavato dalla cava che fornì i conci per la costruzione del complesso, si trova il ninfeo citato dall’Infantino nella sua “Lecce sacra”. Qui, i monaci ospitavano senz’altro i viandanti e i viaggiatori. Non mancano i sedili di pietra, in questo ambiente straordinario e veramente affascinante. La struttura a cerchi concentrici dove si accumulava l’acqua delle abluzioni mi ricorda la domus de janas di Putifigàri (si tratta di strutture sepolcrali costituite da tombe scavate nella roccia tipiche della Sardegna prenuragica), ma ovviamente non voglio stabilire connessioni fra i due luoghi! Nel 1929 veniva distrutto un altro ninfeo, che era connesso alla Torre del Parco, che viene descritto come interamente scavato nella roccia, tempestato di conchiglie sulle pareti, ed in antichità noto come “Bagno di Maria Giovanna”. Era la dimora della famiglia Orsini del Balzo, come pure la torre di Belloluogo, anch’essa luogo di delizie e di un ninfeo, proprietà della regina Maria D’Enghien. La presenza di tutti questi ninfei nella Lecce del XVI secolo rappresenta una vera peculiarità nel panorama del Meridione d’Italia. La sfolgorante epopea dell’Umanesimo aveva attecchito anche in questo lembo estremo della penisola, slanciato nel Mediterraneo.
Fonti: Giacomo Mazzeo, Giulio C. Infantino, F. Delli Noci, Vincenzo Cazzato, Amilcare Foscarini, F. Tummarello.
ALESSANDRO ROMANO (chi sono)
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