Al primo tepore di primavera al chiarore delle sacre fiammelle vanno in scena le tavole in onore di San Giuseppe. Nelle case dei devoti, invase dall’olezzo di fritto e bollito, sovrastato dal profumo inebriante di fresie e narcisi, intorno a veri e propri banchetti, esplode l’inno di lode per ringraziare il santo patriarca per i suoi prodigi e per rendere grazie per l’abbondanza elargita dalla divina provvidenza rivelatasi nei momenti più bui.
Nel solco della tradizione popolare fiorisce la festa religiosa, innestandosi come un virgulto sul tronco del mito pagano della rinascita della natura, che affonda le radici nel culto tesmoforico ellenico di Demetra e Persefone.
In un comprensorio circoscritto del Salento il rituale delle tavole imbandite nella ricorrenza della festa del padre putativo di Gesù trae linfa vitale dalla devozione, che, seppur intrisa di superstizione, non tradisce una fede autentica tipica espressione di un contesto sociale rurale pervaso da un intenso sentimento religioso. Nell’entroterra idruntino, tra il 18 e il 19 marzo, da secoli si ripete l’antichissimo cerimoniale delle tavolate traboccanti di alimenti destinati un tempo a poveri e malati, emulando la generosità dei monaci italo-greci, che lì vi operarono. Ma non è escluso che l’atto di distribuire cibi ai più bisognosi non rimandi alla consuetudine di nobili e feudatari di concedere agli indigenti un pasto caldo nel tentativo di colmare il vuoto delle loro pance. Non a caso il toccante rito, sospeso tra sacro e profano, annunciava l’equinozio di primavera e la celebrazione dei rituali di purificazione agraria. Nell’immaginario collettivo di una società contadina era arrivato il tempo di lasciarsi alle spalle il lungo inverno e di accingersi a salutare l’arrivo della stagione dei raccolti.
Sulla scia di quella usanza caritatevole, perpetuata da un retaggio atavico di isolamento geografico, anche ai giorni nostri si spalancano le porte ai tiepidi raggi di sole per festeggiare il santo invocato dai moribondi, pregando intorno alle tavolate, frutto del sacrificio e della privazione, poiché, i devoti, pur di mantenere la promessa, nei tempi passati, non esitavano persino ad andare ad elemosinare. Nel leccese, a Giurdignano, Uggiano La Chiesa, Casa Massella, Minervino e San Cassiano, nel rituale delle tavole si rinnovano i simboli della religiosità popolare tramandata di generazione in generazione per far fede ad un patto indissolubile. Fedeli a questa pratica votiva i devoti, per grazia richiesta o grazia ricevuta, continuano ad affidarsi all’umile falegname di Nazareth. E, quando il silenzio si fa preghiera il cibo, cucinato al suon di un Pater, Ave e Gloria, viene esposto nelle case aperte a tutti indistintamente. La comunità in festa si ritrova così riunita intorno al pane benedetto e alle pietanze crude o cotte: massa o vermiceddhi con ceci e cavoli, maccheroni conditi con il miele e cosparsi con la mollica di pane fritta al posto del formaggio, lampascioni, rape bollite, pesce fritto o stoccafisso in umido, ceci bolliti nella pignata, cavolfiori conditi con olio d’oliva, frittini con il miele e zeppole, destinate ad essere elargite nello spirito della ricorrenza all’insegna della condivisione. Tra i tredici piatti tipici della tradizione contadina sono rigorosamente banditi carne, uova, latticini e formaggi in segno di quaresima. Sulle tavole degli offerenti accanto alle bottiglie di vino e di olio trionfano i pani devozionali a forma di ciambella guarniti con un finocchio e un’arancia e corredati da diversi emblemi attribuibili ai santi.
Ad ogni banchetto ne sono invitati da un minimo di tre ad un massimo di tredici, tra cui: Sant’Anna, San Gioacchino, Sant’Elisabetta, San Zaccaria, San Filippo, San Giovanni, Santa Maria Cleofe, Sant’Agnese, Santa Maria Maddalena, San Giuseppe D’Arimatea, Santa Marta, San Simone e San Tommaso, disposti a corona intorno alla Sacra Famiglia. L’atto dell’assaggio è sancito dal battito del bastone o dal tintinnio di una posata sull’orlo del bicchiere o del piatto da parte del personaggio che interpreta San Giuseppe. Quel che rimane di ogni pietanza viene portato a casa per essere distribuito a parenti e amici, ma anche alle persone ostili per risanare contrasti e dissapori. La scelta dei piatti sembrerebbe casuale se non si cogliesse il sottile collegamento con alcuni episodi della vita del santo, il cui simulacro troneggia sulla tavola, allestita come un altare, attorniato da fiori e ceri. La verga fiorita, elemento iconografico relativo alla scelta del santo quale sposo della vergine Maria domina il banchetto. Un banchetto intriso di fede, speranza e carità che, nella prospettiva ecumenica di un grande pontefice, Giovanni Paolo II, rappresentano le tre stelle che rifulgono nel cielo della vita spirituale per guidare il credente verso Dio.
Seppur circoscritto ad alcune aree del Salento questo fenomeno ha investito in vari tempi e in vari modi le alte sfere ecclesiastiche, che hanno tentato di carpirne l’essenza, ma soprattutto di accoglierlo e di riconoscerlo in seno alla Chiesa perplessa di fronte alle contaminazioni posticce di indubbia matrice culturale e pittoresca, che non devono indurre in errore né tantomeno snaturare un arcaico cerimoniale. “Si trovano presso il popolo espressioni particolari della ricerca di Dio e della fede, per lungo tempo considerate meno pure, talvolta disprezzate. Queste espressioni formano oggi un po’ dappertutto l’oggetto di una riscoperta.” Così un altro papa, Paolo VI, nell’esortazione apostolica “Evangelii Nuntiandi”, promulgata nel 1975, nell’intento di ribadire l’impegno da parte della Chiesa di annunciare il Vangelo agli uomini, esortava all’accettazione della religiosità popolare. Il pontefice, cogliendo la manifestazione autentica dalla fede professata in modo del tutto particolare, la definiva “pietà popolare” cioè del popolo, perché scaturita dalla fede dei semplici e dei poveri, decisamente lontana dall’indottrinamento dei teologi particolarmente avversi a quel sincretismo religioso (di stampo medievale) impregnato di magico e di superstizioso. Il rituale delle tavole imbandite nella ricorrenza della festa di San Giuseppe potrebbe rientrare proprio in questa tipologia in quanto erede di una devozione ingenua intimamente legata ad un contesto sociale-religioso scandito dalla quotidianità e dal duro lavoro dei campi. Comportamenti, pratiche, fioretti, regole e osservanze particolari connoterebbero da sempre l’animo religioso salentino traboccante di una religiosità primitiva anche se a tratti folcloristica. Ma nonostante la superstizione è proprio nella genuinità della devozione, sorretta dalla fede, che continua ad annidarsi il valore intrinseco del sacro per nulla intimorito dal profano.
Un tributo di venerazione talora spettacolare viene reso a San Giuseppe non solo nel leccese, ma anche nel brindisino e nel tarantino. Ad Erchie, Torre Santa Susanna, Avetrana, Sava, Monteparano, Lizzano, Fragagnano e San Marzano di San Giuseppe si ripete l’antico rito delle tavolate ossia dei pranzi offerti dalle famiglie in segno di devozione. A San Marzano, capitale arbereshe italiana, la cerimonia delle mattre risalente al 1886, allorquando San Giuseppe in seguito ad un violento nubifragio che devastò vigneti, frutteti e uliveti venne proclamato protettore del paese, è preannunciata dalla “processione delle fascine” destinate ad essere arse sino all’alba da un fuoco purificatore.
Puntualmente ogni anno, nella serata del 18 marzo, migliaia di persone scortano a piedi per diversi chilometri una cinquantina di carretti stracolmi di fastelli e di tralci di potatura di vite trainati da cavalli bardati a festa e pronti ad inginocchiarsi dinanzi al simulacro del santo. La legna che affannosamente trascinano è destinata ad alimentare il grande fuoco ossia il falò monumentale per certi versi simile a quello della focara accesa a Novoli (in provincia di Lecce) in onore di Sant’Antonio abate.
La gente apre i cuori per festeggiare l’artigiano di Dio, che, nonostante l’età avanzata si assunse l’onere di essere padre, rinunciando alla legittima aspirazione di essere marito e scegliendo di vivere una vita lontana dai riflettori per giunta all’ombra di un figlio ingombrante. Ultimo dei giusti dell’Antico Testamento, San Giuseppe, nell’immaginario collettivo interpreta il disegno di amore del padre verso il figlio, abbracciando il mistero dell’incarnazione del Verbo e accettando di vivere un matrimonio virginale. Per queste prerogative Dio lo volle investire del ruolo di custode dei figli, protettore dei moribondi e fautore del soccorso divino. Quel soccorso che si rinnova manifestandosi attraverso la messa in scena delle tavole imbandite da mettere in relazione con il simbolismo terrestre, culminante con il risveglio della natura dopo un lungo letargo, e con il simbolismo celeste, esemplificato dal cammino fittizio del sole in cielo accompagnato dal soffio in grado di infondere allo spirito una nuova vita.
Lory Larva
A margine di questo testo dell’amica Lory, volevo aggiungere un pensiero: Aristotele, parlando del popolo “dell’altra sponda” (nella sua “Politica”), loda il loro uso di dividere i piatti con i forestieri, condividendo, in armonia, in una sorta di Età dell’Oro reale. Mi piace pensare che si riferisse alle genti salentine, che, prima ancora dell’Era Cristiana, usavano fare quello che con le Tavole di San Giuseppe si fa ancora oggi, e solo in questo angolo di mondo.
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Le Tavole di San Giuseppe
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