La chiamano “la città fra le torri e il mare, Carovigno… un borgo la cui storia si perde nei millenni e il cui fascino incomparabile aleggia fra i suoi campi, i trulli, i castelli, fino alle candide mura del suo centro storico.
In questo spicchio di Salento compreso in pochi chilometri, dalla sua collina fino al mare, c’è racchiuso un viaggio che sorprenderebbe qualunque viandante. Un primo abitato sorse già nell’età del Bronzo è stato individuato ed indagato durante alcune campagne di scavo svolte sugli isolotti di Apani, all’interno della Riserva Naturale dello Stato e Area Marina Protetta di Torre Guaceto. Gli studi del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento hanno portato al rinvenimento di due capanne distrutte da un violento incendio ed eccezionali testimonianze che hanno permesso di ricostruire la vita delle genti che qui si insediarono, 3.500 anni fa. La presenza di centinaia di buche di palo – che erano le strutture portanti delle capanne – sia sul banco roccioso del litorale e sugli isolotti, ma anche nei fondali rocciosi a profondità variabile, indica come il livello del mare all’epoca era almeno 4 m più basso dell’attuale e con la linea di riva avanzata anche di qualche centinaio di metri, pertanto questi isolotti erano uniti alla terraferma, facendo parte di un’unica pianura costiera con all’interno alcuni bacini di acqua dolce alimentati dai canali Apani e Reale, elementi che hanno determinato una presenza umana stabile, con brevi soluzioni di continuità, almeno dal II millennio a.C. al tardo Medioevo e reso la località ben nota sin dall’antichità per la presenza di un approdo sicuro. Nel periodo aragonese, sorsero i possenti baluardi costieri in funzione antiturca… torre Santa Sabina, e torre Guaceto. L’origine della città si perde nella notte dei tempi, era uno dei centri messapici più grandi, il suo nome dovrebbe derivare dal termine Carbina, che significava “frugifera” e che trova riscontro nella fertilità della sua terra e nell’antico culto che la popolazione tributava a Cerere, la dea dei campi e dei raccolti. Nel 473 a.C. la città fu distrutta dai Tarentini. In origine era difesa da due cinte murarie ed era asserragliata sulla sommità della sua collina. Oggi resta ben poco dell’imponente opera di fortificazione che la racchiudeva. Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, il suo territorio fu conteso nel tempo da Bizantini e Goti, fino a epoca più recente, quando si diedero il cambio i Normanni, gli Svevi, gli Angioini, gli Aragonesi, e poi i Veneziani, gli Spagnoli, gli Austriaci e i Borboni. Imponente il suo castello, costruito nel XV secolo dagli Orsini del balzo, e molti sono i feudatari che ne hanno preso possesso, da ai Granafei, gli Imperiali e i Dentice di Frasso. La storia più bella che riguarda questo incantevole borgo risale a mille anni fa, risuona attorno alla parola nzegna, ossia insegna, una storia ancora viva, che qualche anno fa ebbi la fortuna di rivivere, giungendo qui nel periodo pasquale. Nzegna, una parola dialettale, tratta dal locale idioma di Carovigno, che racchiude una delle storie medievali più interessanti dell’Italia intera, anche perché legata ad una tradizione folkloristica ancora viva e molto sentita dalla gente del paese. A quattro km dalla cittadina, fra le poetiche e ondulate campagne della zona, sorge l’ottocentesco Santuario della Madonna del Belvedere. Costruito sopra una vastissima grotta naturale, abitata probabilmente già dall’alto medioevo, Il Santuario cela una storia che parrebbe il classico rinvenimento della icona dimenticata, grazie ad un animale che vi si inginocchia vicino. Tradizione riscontrabile in diverse città del Salento. In realtà, seguendo i devoti in questa giornata, ne ho saputo di più. Ogni anno, da secoli, il lunedì, martedì e sabato dopo Pasqua, la gente si ritrova, a festeggiare e ricordare l’evento. Entrando nel Santuario, sulla destra si apre la profonda grotta, nella quale si scende attraverso 47 grossi gradini… Il ciborio reca la data 1501. Subito dopo l’ingresso, c’era una volta l’affresco di San Michele Arcangelo, che come ha rivelato lo studioso Giovanni D’Andrea nel suo monumentale saggio sull’argomento, è intimamente legato al culto in grotta dei primi cristiani che giunsero in Italia meridionale, greci, portando una venerazione tutta orientale. Oggi l’affresco non è più percepibile. Sono rimaste tante rappresentazioni della Madonna, pure esse molto antiche, anche se ridipinte nel corso dei secoli. Il popolo racconta, specificando che non si tratta di leggenda, che un giorno un contadino perse il suo vitello, una vera tragedia per quei tempi, che spinse tutto il vicinato a dare una mano nelle ricerche. Così, si divisero e batterono a tappeto tutta la zona. Quando il vitellino venne rintracciato, tale fu la gioia che il suo scopritore legò un fazzoletto ad un bastone e cominciò a gettarlo in aria, cantando e urlando di gioia, per richiamare gli altri. Fu nel recuperare la bestia, che era rimasta intrappolata con le zampe in un fosso, che le gente si accorse, liberato il vitello, del buco che si aprì sotto di essa. Una grande e misteriosa caverna. E’ qui che, dopo che i più coraggiosi discesero, venne scoperto il Santuario, ed i suoi meravigliosi affreschi, e quel viso stupendo della Madonna… La gioia dei suoi scopritori giunse al colmo! La Santa Messa precede il rito secolare che sta per ripetersi… Un quadro con l’immagine della Madonna del Belvedere (si chiama così perché il luogo è posto su un’altura che domina un affascinante panorama) viene portato in processione… Poi comincia la Battitura della Nzegna. Una parola che sta per “insegna”. Due uomini cominciano a ricreare la “festa” che accade qui secoli fa a quel ritrovamento. Lanciano, al ritmo di una caratteristica musica, la bandiera in alto, mentre la gente trattiene il fiato intorno, liberando ogni volta l’applauso quando viene ripresa al volo. Infatti per molta gente la caduta al suolo della Nzegna viene vista come cattivo auspicio, viene legata a vere e proprie tragedie accadute nei giorni successivi. La fede qui sfocia nella superstizione. Gli stessi battitori, se all’improvviso cambia il vento, li si vede cambiare colore in faccia! E non lanciano la Nzegna, dopo il rituale del “balletto”, se il vento potrebbe fargliela scappare. E’ impossibile descrivere ciò che qui si prova dal vivo, in quei giorni… per cui, se vi è piaciuto questo viaggio, vi consiglio di farlo di persona… Carovigno non si dimentica!
ALESSANDRO ROMANO (chi sono, clicca qui)
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