L’onda del Mito ruggisce ancora sulle scogliere di Castrignano del Capo. In una terra senza tempo esposta al soffio del vento nel turbinio del presente da un mondo fatato ritornano in vita i fantasmi del passato. In preda a rimpianti e rimorsi, ma soprattutto a struggenti ricordi, vagano senza meta per poi tuffarsi nel mare perduto del mito, dove, per atroce vendetta della candida sirena Leucasia, divenuta folle per amore, affogarono il pastorello Melisso e la bella Aristula. A consacrare la loro indissolubile unione,
in un universo popolato da mostruose creature mitologiche e da divinità olimpiche e ctonie, la pietà della dea greca Athena (la romana Minerva), che, assistendo impotente alla tragedia dalla cella del suo tempio, decise di trasformare in rocce i due sfortunati innamorati, destinati, da un versante all’altro della scogliera, a scambiarsi languidi sguardi e tenere carezze consegnate ai flutti delle correnti mute testimoni delle loro promesse d’amore sussurrate alla brezza dell’eternità.
E, come per incanto, sulla scia della tradizione pagana, lungo il tacco d’Italia, gli scogli degli infelici amanti pietrificati si disposero intorno alle spoglie mortali fossilizzate della gelosa sirena. Lì dove la perfida creatura marina scomparve nel tormento venne fondata la bianca Leuca, destinata a divenire meta del pellegrinaggio cristiano nella convinzione, che, varcando le soglie del santuario, dedicato a Sancta Maria de Finibus Terrae, si spalancassero le porte del Paradiso relegato ai confini della terra.
Per lunghi secoli dal carsico promontorio iapigio, irto di grotte ed anfratti a picco sul mare, si irradiò il dominio incontrastato su uno dei tratti più strategici di tutto il bacino del Mediterraneo, che, orgogliosamente funse da anello di congiunzione tra Oriente, Magna Grecia e Sicilia sulla scia delle rotte marittime, battute da marinai e mercanti micenei e greci, che si orientavano di notte con le stelle. Il viaggio alla scoperta di nuovi mondi ricchi di mercati fiorenti scolpì nella loro memoria visiva la conformazione geografica di quella terra contemplata a lungo dal mare come un miraggio. Una terra tra le acque appariva, infatti, la penisola salentina ai Greci, che, in vari tempi e in vari modi, cercarono di attivarvi empori in prospettiva di una colonizzazione. Ma ad attrarli magneticamente fu, soprattutto, la valenza sacrale dei promontori templati, che, oltre ad indicare la rotta, ispiravano un’accorata preghiera di ringraziamento alle divinità della navigazione. A strapiombo sul mare di quella che le fonti letterarie antiche denominavano Akra Iapygia, corrispondente all’attuale Capo di Santa Maria di Leuca, sorgevano due templi. Uno, collocato su Punta Meliso, era dedicato alla dea greca della sapienza Athena corrispondente alla romana Minerva. Qui San Pietro sbarcò per continuare il viaggio verso il martirio, che lo attendeva a Roma, e da allora in poi quel luogo di culto pagano venne convertito in santuario cristiano intitolato ab origine al Salvatore e destinato ad essere implementato e fortificato nel corso dei secoli. Il racconto leggendario è rimasto condensato nella scritta incisa sul portale dell’edificio sacro: scacciato da questo tempio il culto degli idoli dal divino Pietro, i suoi discepoli nell’anno 43 lo dedicarono alla Vergine Madre di Dio Annunziata dall’Angelo. Nell’anno 59 fu insignito di sede vescovile…
Sul lato destro dell’ingresso, sempre con l’intento di tramandare il ricordo del primitivo culto pagano in onore di Minerva, venne collocata una base ortogonale recante l’iscrizione in latino: Ubi olim Minervae sacrificia offerebantur hodie oblationes Deiparae recipiuntur ossia Qui dove sacrifici a Minerva offriansi e doni / l’obol sacro a Maria cristian deponi. A testimonianza del passaggio del principe degli apostoli, sull’onda emotiva della battaglia di Lepanto (1571), per volontà del barone di Gagliano e Salignano, Giovani Castriota Scanderbegh, nella pineta adiacente venne eretta la croce petrina munita di due chiavi incrociate simbolo del clavigero del regno dei cieli. Nel 1694 Filiberto d’Aragona, invece, nel cuore del piazzale eresse la colonna in stile corinzio per commemorare il passaggio del pescatore di Cafarnao.
Lunga e travagliata la parabola che portò alle costruzioni e alle ricostruzioni del santuario, intitolato alla Madonna di Leuca o dei confini della terra. Il culto mariano sentito e praticato venne ulteriormente rinfocolato in occasione del miracolo che il 13 aprile del 365 risparmiò i pescatori e le loro fragili barche da un tremendo maremoto. In segno di devozione i Leuchesi, secondo la leggenda, si recarono a Malta presso la dimora dell’evangelista Luca per riportare nella loro terra natale un quadro raffigurante le fattezze della Madonna col bambino Gesù posti tra gli apostoli Pietro e Paolo nella gloria delle schiere angeliche. Raso al suolo in osservanza dell’editto di Galerio (293-311 d.C.) il tempio venne riedificato e consacrato il primo giorno di agosto del 343 d.C. da papa Giulio I di ritorno dalla Terra Santa, così come si evince dall’epigrafe: Julius hic primus / celebrans, emmissa / de coelo indulta accepit. / Kalendas CCCXLIII dum / consacravit hoc templum ossia Giulio I / qui celebrando / ricevette dal cielo le indulgenze / il primo agosto 343/ mentre consacrava questo tempio. La lapide venne inglobata sul lato sinistro rispetto alla porta principale interna a imperitura memoria della concessione papale delle indulgenze piovute come la manna dal cielo. Nel 1507 il vescovo Giacomo del Balzo (1488-1512) commissionò ad un discepolo di Tiziano, Giacomo Palma il Giovane, la meravigliosa effigie della Madonna col Bambino a immagine e somiglianza del primo quadro dipinto dall’evangelista Luca. Esso purtroppo finì insieme ad altri arredi sacri nel rogo appiccato nel 1624 dai pirati algerini anche se le fiamme risparmiarono miracolosamente i volti santi che troneggiano ancora oggi sull’altare maggiore. Nel 1625 l’opera integrale del Palma, su commissione del marchese di Corigliano d’Otranto, Geronimo Delli Monti, venne ricopiata dal pittore mesagnese Andrea Cunavi ed esposta sulla cappella del Santissimo Sacramento. Tra il 1720 e il 1743, su iniziativa del vescovo Giovanni Giannelli, il tempio venne incorporato ad una struttura fortificata da torri e ponti levatoi in grado di respingere gli assalti turchi e saraceni molto frequenti in quel lembo di territorio bramato tra l’altro dai pellegrini, che vi giungevano in cammino penitenziale per la remissione dei peccati e dai cavalieri crociati, che dal porto si imbarcavano per liberare il Santo Sepolcro. Il presule Giannelli per i suoi particolari meriti venne sepolto nel 1743 di fronte al pulpito, affidando il suo ricordo ad un’epigrafe commemorativa, scritta di proprio pugno: D.O.M. viator aspice et lege ut intelligas fugit tempus aperitur veritas astat mors finem respice in tenebris et in umbra mortis ne sedeas et si optas de ligno vitae edere vince mundum ac si vis in Aeternum vivere nunc vive inique fixum sit cor ubi vera sunt gaudia. Joannes Jannelus huius sanctae et Alexanen Ecclesiae Episcopus vivens morituro sibi posuit posthumo vero (ut et sibi prosit) ita monet obiit die V Mensis Januarii anni MDCCXLIII ossia A Dio Ottimo Massimo. O viandante, rifletti e leggi affinché tu possa comprendere: fugge il tempo, si scopre la verità, giunge la morte. Pensa alla fine non indugiare nelle tenebre e nell’ombra di morte se desideri mangiare dell’albero della vita vinci il mondo e se vuoi vivere eternamente vivi ora in modo che il tuo cuore sia attratto dove sono le vere gioie. Giovanni Giannelli vescovo di questa Chiesa e di Alessano da vivo si preparò questo sepolcro per quando sarebbe morto, ma da morto lancia un monito che possa giovare anche a se stesso. Morì il giorno 5 del mese di gennaio dell’anno 1743. L’interno a navata unica venne scandito da sei altari laterali, dedicati rispettivamente a San Francesco di Paola, San Giovanni Labre, alla Sacra Famiglia, all’Annunziata, a San Pietro e San Giovanni Nepomuceno. La chiesa, elevata al grado di Basilica Pontificia Minore dal sommo pontefice Giovanni Paolo II con Breve Apostolico del 7 ottobre 1990, secondo la tradizione ecclesiastica dovrebbe essere visitata almeno una volta nel corso della vita per aspirare all’assoluzione dei peccati commessi e per guadagnare le indulgenze dopo la morte in favore delle anime sante del Purgatorio affidate all’intercessione della Madonna delle frontiere, la cui fiamma arde sempre luminosa.
Spettacolare la scenografia, che si apre a ventaglio nell’infinito della terrazza panoramica degradante verso il mare. Al cospetto del maestoso faro si inchinano dirupi e grotte come, ad esempio, quella del Diavolo, del Fiume, del Presepio, Tre Porte, del Bambino, dei Giganti, della Stalla e del Drago. Ma il litorale dalle bianche rocce (Leucopetra Tarentinorum), da cui deriverebbe l’etimologia del nome Leuca, è costellato anche di lussuose dimore aristocratiche ottocentesche realizzate negli stili più disparati come, ad esempio: villa Daniele, Episcopo, La Meridiana, Fuortes, Colosso, Arditi, De Francesco, Seracca, Loreta Stefanachi, Mellacqua, ecc. Una caratteristica più unica che rara, connessa a queste residenze stagionali, era quella delle cosiddette “bagnarole”, ormai quasi del tutto scomparse. Si trattava di cabine in legno o in muratura, che consentivano alle pudiche signore delle classi abbienti, refrattarie al sole e all’abbronzatura, ma soprattutto gelose della loro privacy, di tuffarsi nelle acque blu cobalto, schivando gli sguardi di molestatori e curiosi.
In età antica un altro tempio pagano sorgeva su Punta Ristola, dove veniva adorato il dio messapico della navigazione. Nel santuario emporico di Grotta Porcinara o Portinara, accessibile solo dal mare e realizzato artificialmente su terrazzi tagliati nella roccia, venivano offerti ex voto, come vasi, statuette e ceppi di ancora. L’approdo, connesso al luogo di culto, che ebbe continuità di vita dall’VIII sec. a.C. al II sec. d.C., era dotato di strutture di servizio connesse all’organizzazione santuariale e alla gestione dell’ormeggio. Gli avventurieri del mare, una volta sbarcati, ringraziavano Zis Batas (a cui subentrò in epoca successiva Iuppiter Batius o Vatius) per aver concesso loro una traversata propizia. Intorno al grande focolare, che raccoglieva le ceneri dei sacrifici, i viaggiatori esausti si rifocillavano, ponendosi sotto l’ala protettiva della divinità degli eventi atmosferici e della luce solare.
Consapevole del suo glorioso passato e favorita da un paesaggio mozzafiato rimasto quasi incontaminato quella che fu una candida borgata di pescatori continua ad emanare il suo fascino antico, sprigionando la sua sensualità attraverso le sontuose ville e i lussuosi yacht ormeggiati nel porto brulicante di vita soprattutto nel periodo estivo, quando la marina è presa letteralmente d’assalto da sciami di turisti desiderosi di esplorare i borghi incantevoli dell’entroterra quali Giuliano e Salignano rientranti, insieme a Santa Maria di Leuca, nell’orbita amministrativa di Castrignano del Capo, il cui toponimo rimanderebbe al latino castrum ossia accampamento militare o fortezza come quella munita di tre torri finestrate e merlate alla guelfa, che, su fondo azzurro, continua a svettare sull’arme araldica in ricordo di quella crollata intorno al 1450-56 a causa di un devastante sisma.
Echi lontani di feudatari, simili a ruggiti di leoni pronti a sbranare pur di rivendicare un potere quasi assoluto, come i De Caniano, i Pignatelli, i Bilitta, gli Ayerbo, i Della Ratta, i Della Barliera, i De Frisis e i Guarini, si odono ancora tra le mura di quello che fu il casale posto sotto l’egida di San Michele Arcangelo, il cui simulacro si staglia sulla colonna fatta erigere nel 1839, e della Vergine Immacolata, alla quale venne dedicata un’altra colonna votiva eseguita nel 1838 dallo scultore Martino Carluccio di Muro Leccese. I fasti delle nobili casate si riflettono sull’architettura compositiva, che fa da cornice al nucleo urbano più antico racchiuso nel dedalo di vicoli contorti del centro storico. Qui venne pianificato per resistere agli assalti di pirati e briganti “Borgo Terra”. Nonostante gli arditi interventi di ristrutturazione l’agglomerato urbano a carattere rurale mantenne inalterata l’essenza di un borgo tipico del tardo medioevo salentino costellato di frantoi ipogei. Nel 1460 esso venne stretto nell’abbraccio di Palazzo Fersini costruito per sfidare i secoli. Alla fine del XVIII secolo lungo il circuito murario prospiciente all’antica piazza San Nicola, denominata oggi piazza Mercato, sorse il poderoso Palazzo Muzi dotato di strutture difensive in grado di respingere gli assalti dei nemici e attrezzato per un’economia autarchica tipica di una civiltà contadina, garantita da un mulino, tre pozzi e un frantoio ipogeo.
Sulle vestigia di un luogo di culto di età rinascimentale, raso al suolo dal terremoto del 20 febbraio 1743, a partire dal 2 aprile dello stesso anno, iniziò a delinearsi la struttura della chiesa madre intitolata a San Michele Arcangelo e consacrata il 22 dicembre 1751. Incastonata tra le due torri della primitiva rocca assunse una fisionomia barocca snaturata dopo il Concilio Vaticano II, quando l’altare maggiore, riccamente intarsiato di marmi policromi, venne smantellato dal presbiterio. Allo stato attuale l’interno a navata unica apparirebbe spoglio se non fosse per i sei altari laterali ornati con le tele settecentesche, raffiguranti Sant’Oronzo, San Michele Arcangelo, San Giovanni Battista, la Madonna delle Grazie e la Visita della Beata Vergine Maria a Santa Elisabetta, l’organo a venticinque canne intagliato nel 1751 da Sebastiano Kircher, e la statua lignea di San Michele, firmata dallo scultore napoletano Nicola Fumo e rinomata sia per non essere perfettamente in aderenza al suo piedistallo sia per i suoi poteri prodigiosi, che nel 1867 allontanarono un’epidemia di colera dall’alacre paese del Capo di Leuca. Il prospetto, ripartito in due ordini da un toro marcapiano, è esaltato dal portale centrale, sormontato dal simulacro del santo titolare, da quattro nicchie e un finestrone attraverso cui filtra la luce, che pervade l’edificio sacro.
La devozione popolare si manifesta in altri luoghi di culto castrignanesi a partire dalla settecentesca chiesa della Madonna Immacolata, impreziosita con il monumentale altare maggiore in marmi policromi; la chiesa della Madonna delle Morelle, edificata in prossimità del cimitero agli inizi del XIX secolo dopo il rinvenimento da parte di un cacciatore di un’icona della Madonna in un cespuglio di more; la cappella di Sant’Antonio da Padova di stampo neoclassico; la minuscola cappella dello Spirito Santo del XVIII secolo e la cappella di Santa Maria della Misericordia, che nel 1639 obliterò il diruto tempio intitolato a Santa Maria del Trisciolo.
Percorrendo un viale alberato, che costeggia una strada, dove regna sovrana la pace, fa capolino il borgo di Salignano punteggiato da case con cortili fioriti e da edifici di culto di modesto pregio artistico a partire dalla chiesa madre, intitolata a Sant’Andrea Apostolo, e a finire alla cinquecentesca chiesa della Purificazione; alla chiesa della Madonna delle Rasce, eretta tra i rovi dopo un lungo periodo di siccità, ma finita con l’essere dimenticata tra le campagne; alla chiesa di San Giuseppe, un tempo luogo di sosta dei pellegrini in cammino penitenziale verso il santuario di Santa Maria di Leuca. Nel cuore antico pulsa la torre di difesa in carparo risalente al 1550 così come recita l’iscrizione incisa sull’architrave della porta d’ingresso. Presidio di difesa a pianta circolare, coronato da una teoria di beccatelli, manteneva a debita distanza i predoni, esibendo minacciosamente le cinque cannoniere e le caditoie posizionate strategicamente lungo il circuito perimetrale esterno.
Al viaggiatore smanioso di immergersi in un’atmosfera quasi ascetica basta percorrere un pugno di chilometri per sprofondare nella magia del borgo di Giuliano, uno di quei luoghi che arricchiscono l’anima, gremito nel IX secolo dai profughi del casale Vereto incendiato dai Saraceni. Pillole di saggezza popolare invitano alla riflessione tra via Regina Elena e via Verri, dove da balconi, architravi e volte trasudano dalla pietra moniti espressi da massime latine come, ad esempio, Vide manticae quod in tergo est, ossia vedi della bisaccia ciò che sta alle spalle oppure Noli dirigere somnum ne te egestas opprimat. Quae parasti cuius erunt lucro sunto. A. D. 1788 che significa Non amare il sonno affinché la povertà non ti opprima. Ciò che hai messo da parte sia di guadagno per l’erede. Anno del Signore 1788.
E altre ancora come Virtus invidiam frangit labor fortunam conciliat humilitas fortiori vincit ossia la virtù annienta l’invidia. Il lavoro concilia la fortuna, l’umiltà vince la difficoltà. In un angolo di via Regina Elena torreggia il menhir Mensi, uno dei megaliti con cappello del Salento, mentre su via D’Azeglio con piglio sarcastico irrompe sulla scena la Loggia degli Sberleffi, sorretta da quindici mascheroni apotropaici in carparo scolpiti intorno al 1609 per incutere timore agli spiriti maligni e allontanarli. Consunti dal tempo i ricordi della rinomata Universitas giulianese riaffiorano prepotentemente lungo i tratti del circuito murario del XVII secolo, fortemente voluto dalla nobile casata dei Cicinelli e interrotto dalla monumentale porta di piazza San Giuliano, che consentiva l’accesso al piccolo centro rurale dominato dal poderoso castello. Circondato da un fossato, convertito in odoroso agrumeto, il fortilizio conserva la fisionomia originaria tipica dell’architettura militare del Cinquecento con torrioni quadrati, di cui uno fagocitato inesorabilmente da una struttura moderna, rigorosamente implementati da bastioni verticali. Un ponte ad archi in muratura fungeva da ingresso al maniero disposto intorno ad un cortile centrale a cielo aperto sul quale si affacciavano i luoghi deputati alle attività produttive e gli alloggi destinati alla servitù. Il piano superiore, invece, ospitava le sale di rappresentanza e le camere da letto dei feudatari, che ressero le sorti dell’insediamento rustico, fondato, secondo la leggenda, dal centurione romano Julianus.
Tra i tesori custoditi in questo piccolo scrigno brilla la chiesa di San Pietro Apostolo risalente al X secolo d.C. al tempo dei monaci basiliani. Edificata, ricorrendo al reimpiego dei blocchi isodomi delle mura e dei templi dell’antica città messapica di Veretum così come documentato dai resti di un elemento architettonico recante inciso un bucranio, presenta all’interno labili tracce di affreschi, mentre all’esterno ha restituito il pozzetto/silos del rito greco-bizantino e alcune tombe scavate nella roccia. Ferita e umiliata dalle offese del tempo e degli uomini condivide la triste sventura di abbandono e di degrado della cripta a tre navate del Cristo Pantocratore risalente al IX sec. d.C. Nascosta miracolosamente da una folta vegetazione, che, per ironia della sorte, in un certo senso l’ha preservata da ulteriori scempi, presenta nell’abside l’altare originario e l’affresco del Cristo “sovrano di tutte le cose” tipico motivo iconografico dell’arte bizantina. Degna di nota la cinquecentesca chiesa matrice dedicata a San Giovanni Crisostomo e rinomata per gli affreschi del 1564 e per il bassorilievo in pietra leccese della Pietà scolpito nel 1612. Rimaneggiata nel corso dei secoli esibisce un prospetto di stampo neoclassico, che si discosta dagli altari barocchi interni impreziositi con tele settecentesche ed esaltati dagli stucchi delle volte e delle colonne e dall’organo, che l’abile artigiano Simon Kirker eseguì nel 1721.
In un’atmosfera mistica, che pervade un paesaggio da favola immerso in un silenzio quasi surreale, si infiamma un’intima visione sensoriale, alimentata dalla bellezza alchemica di questo angolo remoto del Salento, dove terra e mare si sposano con il cielo e gli spiriti si nutrono di poesia nell’armonia della natura e nell’opalescenza dovuta alla rifrazione di lame di luce, che offrono asilo alle ombre del mito.
testo di Lory Larva
fotografie di Alessandro Romano
CASTRIGNANO DEL CAPO FOTOGALLERY
Giuliano, epigrafi in latino sulle case del centro storico. Un coro di saggezza popolare!
Qui siamo nella chiesa della Madonna del Canneto, restaurata a giugno 2016, riportando alla luce i disegni originari che c’erano sull’organo, fino ad allora completamente ricoperto di calce bianca.
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