Bella qual sogno ti appare come per incanto ti rapisce e ti incanta, invitandoti a scoprirla e ad ammirarla quasi come se fosse una margherita da sfogliare. Ogni petalo una chiesa, un palazzo, un convento, una galleria, uno scorcio, un monumento, un blasone, un cenotafio, un lacerto, un sogno in un museo a cielo aperto, curiosando tra le vetrine del suo passato.
Un passato sospeso tra le gloriose vicende dell’indomita stirpe dei Messapi e l’intramontabile dinastia dei Castromediano. Cavallino, città d’arte e di cultura, ti invita alla lettura, e, con i versi di poeti dialettali e di patrioti risorgimentali, ti cattura, spronandoti all’avventura.
Nel panorama messapico Cavallino rappresenta uno dei pochissimi siti archeologici in cui l’assenza di sovrapposizioni consente di ricostruire la straordinaria parabola umana delle genti messapiche e la loro strategia insediativa. La più dettagliata descrizione dell’abitato indigeno risale alla fine del secolo scorso ed è firmata da Sigismondo Castromediano, pioniere della ricerca archeologica di quella che definiva la Sybaris di Terra d’Otranto. Scomparso il Duca Bianco, nonostante i ritrovamenti occasionali ed episodici di manufatti, tombe, iscrizioni e corredi tombali, calò l’oblio almeno sino alle campagne di scavo e le ricognizioni sistematiche, condotte a fasi alterne dal 1964 al 1982, dall’Università degli Studi di Lecce e dalla Scuola Normale Superiore di Pisa.
Per ricomporre il quadro gli archeologi si concentrarono sull’impianto insediativo di età arcaica, del circuito murario, munito di imponenti torri e porte ad ingresso sfalsato, del fossato, delle necropoli, di aree artigianali, cultuali e di quelle destinate ad uso abitativo. Ulteriori campagne di scavo, condotte in maniera episodica dal 1984 al 2004, hanno consentito la definizione delle varie fasi di frequentazione a partire dall’età del Bronzo fino al primo venticinquennio del V sec. a.C., quando il centro venne abbandonato a causa di una distruzione violenta, innescata da un incendio o dal prosciugamento della falda freatica. Evidenze riferibili all’insediamento protostorico sono evidenti in due settori non contigui tra loro, in prossimità della porta nord-est, miracolosamente conservata per un’altezza di 2 m., e a circa 350 m. da essa in direzione SO, in prossimità dell’area occupata da un settore dell’abitato riferibile ad età storica. Esempio evoluto di accesso all’abitato, secondo i canoni dell’architettura militare italica, questo varco di età arcaica, realizzato sul modello delle mitiche “porte Scee”, concepite per lasciare testa e fianco sinistro del nemico sguarnito in caso di assalto, era collegato ad una strada delimitata da banchine, con battuto di tufo e frammenti di tegole pressati secondo uno stereotipo tipicamente messapico.
Risultano ancora visibili i solchi delle carreggiate incisi sulla roccia, la soglia con il battente centrale per il portone, i paracarri in pietra ancora in situ e gli stipiti squadrati con gli incavi per alloggiare le due ante lignee, che rimanevano spalancate in tempo di pace e chiuse in caso di pericolo. Protetta dal fossato, che circondava l’intera città, si relazionava con un altro ingresso situato nella zona ovest e posto sotto l’odierno Municipio, colmato con materiale di risulta delle mura. Nella prima area sono stati individuati i resti di tre capanne a pianta ellittica con pareti costituite da bassi muretti a secco e lembi di battuti pavimentali in argilla cotta mista a frammenti di ceramica. È stata, inoltre, localizzata la sequenza stratigrafica, relativa all’insediamento dell’età del Bronzo, che si estendeva per un tratto lungo circa 100 m. quasi sull’orlo del fossato arcaico, e del villaggio a capanne, sviluppatosi nella prima età del Ferro, con continuità di vita fino all’VIII sec. a.C.. In quest’arco cronologico sono da ascrivere frammenti di intonaco rossiccio, pertinenti a capanne di grandi dimensioni con fondo in battuto di argilla ed alzato in materiale deperibile. Ulteriori attestazioni relative all’età del Ferro provengono dal Fondo Pelli, dov’è stata scavata una capanna a pianta ovale, delimitata da un muretto in pietrame, mischiato a terra argillosa, che doveva corrispondere all’abitazione del clan dominante, attratto nell’orbita del mondo greco e grecizzato, come documentato dalla presenza di ceramica greca d’importazione, soprattutto corinzia, frammista a quella di produzione locale. Per tutto il VII sec. a.C. l’abitato mantenne le caratteristiche peculiari del villaggio in nuclei sparsi, mentre intorno alla metà del VI sec. a.C. con il soffio dell’età arcaica si registrò una vera e propria rivoluzione nell’organizzazione interna marcata da caratteri protourbani rispondenti a strutture abitative in materiale lapideo, munite di marciapiedi ed intersecate da strade. L’area venne delimitata da una fortificazione con fossato, costituita da un paramento esterno in grossi blocchi in opera a secco e da un paramento interno in pietrame minuto non lavorato, in cui si aprirono le porte in corrispondenza di sfalsamenti dell’asse del muro.
Altre due cerchie murarie, nella stessa tecnica costruttiva della fortificazione principale, racchiusero settori dell’abitato con una funzione non solo difensiva, ma anche di definizione dei confini territoriali. Si delineò un’intricata maglia urbana, intersecata da strade ben pavimentate con uno spesso battuto di pietra e tufina su cui si affacciavano case con fondazione di blocchi squadrati, disposte intorno a cortili, alzato con piccole pietre e tetto ad una sola falda. Nel cuore dell’abitato un’area pubblica venne destinata a piazza o a mercato, dove iniziarono ad operare artigiani specializzati in grado di imitare sapientemente tecniche e motivi decorativi ellenici. Grazie alla loro spiccata professionalità vennero edificati sontuosi edifici di tipo greco, decorati con terrecotte architettoniche importate da Corfù (Corcyra) del tutto simili a quelle dell’Artemision. Proprio alle maestranze dell’isola ionia i notabili messapici commissionarono i tetti in terracotta policroma, caratterizzati da un coronamento scandito da spirali e fogliette a rilievo per essere installati su una residenza palaziale, interpretata come anaktoron, luogo simbolo dell’emanazione del potere da parte del clan gentilizio, che lì vi abitava. In prossimità di questo comparto privilegiato vennero dislocati sacelli, necropoli, impianti artigianali e cisterne per la raccolta dell’acqua piovana di importanza strategica per il centro, che, attraverso un percorso stradale, individuato dalla fotografia aerea, oltrepassando boschi e radure si collegava all’Adriatico mediante lo sbocco di Rocavecchia. Due estese necropoli, caratterizzate da tombe a cassa rettangolare, scavate nella roccia, vennero utilizzate all’esterno delle mura tra il VI e il V sec. a.C. Anche all’interno sia lungo le strade a nord che ad ovest furono ricavate tombe nel banco roccioso, destinate probabilmente ad un ceto sociale medio. Alcune, come quelle di via Regina Margherita, accolsero preziosi corredi funerari, caratterizzati da vasi di bronzo di importazione greca. Tra questi la pregiata prochous (brocca a becco), realizzata nella Grecia settentrionale o in contesti coloniali corinzio-corciresi sull’Adriatico. Un numero imprecisato di bronzi di produzione magno greca e peloponnesiaca venne rinvenuto insieme a ceramica figurata attica e a modesti manufatti di produzione autoctona. A riscontro della fiorente vita della popolazione autoctona sono state riportate alla luce anche anfore commerciali vinarie greco-orientali, provenienti dall’Asia Minore e dalle isole dell’Egeo, come Samos e Chios.
Nella seconda metà del IV sec. a.C., nel Fondo Sentina, dove sono venuti alla luce i pesi da telaio, recanti il teonimo Arzeria, il capitello con abaco decorato con rosette a rilievo e una statuetta fittile di figura femminile seduta in trono, venne sepolto un bambino accompagnato da vasi miniaturistici e dai tipici tintinnabula. Nel Fondo Maratunde (Villa Comunale), tra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C., vennero innalzati segnacoli funerari in prossimità di una delle porte da dove sarebbero scivolati entro il fossato antistante la cinta muraria. Ne sono stati recuperati sei, uno dei quali recava l’iscrizione Balašihino, che significava <<(sono) di Balašes o questo (è) di Balašes>>, e un altro, in stato frammentario, databile intorno alla metà del VI sec. a.C., con la formula onomastica maschile al genitivo Otorišihi analoga al precedente. Gli scavi, condotti nel 2004, nel Fondo Casino hanno restituito un polo abitativo articolato intorno ad un vasto vano, pavimentato in tufina e coperto con tetto di tegole. Intorno ad esso si disponevano cortili, ambienti porticati e locali secondari rimasti a testimonianza della trasformazione radicale, operata nella seconda metà del VI sec. a.C. A questo periodo risalgono le fortificazioni, ultima opera di monumentalizzazione dell’insediamento indigeno che, pur continuando a vivere floridamente, verso la fine del primo quarto del V sec. a.C. venne distrutto e mai più ricostruito. Le mura vennero demolite, le abitazioni incendiate, le cisterne “affogate” con materiale di risulta e i cippi riversati nei fossati, mentre la popolazione in preda al panico si disperse nei limitrofi centri di Lecce e Rudiae. In barba al suo glorioso passato l’agglomerato arcaico venne avvolto dalle ceneri del tempo sospinte ancora a volteggiare dal vento tra le vestigia del Museo Diffuso.
Frequentato in età romana probabilmente da un distaccamento militare che aveva come emblema un cavallo, adottato nei secoli come stemma del paese, anche se l’etimologia del nome Caballino deriverebbe da cabella o gabella insito in kabas, (stazione per la riscossione del dazio), il sito rifiorì in età bizantina, così come testimoniato dalla cripta sottostante alla Cappella della Madonna del Monte e da un cenobio di monaci italo-greci emanazione della cultura orientale. Dopo la parentesi bizantina la storia di Cavallino si fuse e si confuse con quella dei suoi feudatari: i Castromediano, i quali, nei circa quattro secoli di loro dominio, ne segnarono il corso, connotandone il volto e divenendo attori protagonisti della trasformazione del feudo da baronia a marchesato.
Tutto ebbe inizio quando il territorio in questione entrò nell’orbita gravitazionale politica della Contea di Lecce. Concesso dapprima alla nobile famiglia dei baroni Maresgalli nel 1291, al tempo di Ugo di Brienne, pervenne a Pietro de Noha e ai suoi eredi fino a confluire nel 1327 nella dote di Aloisia, moglie di Luigi Castromediano Limburg. Di generazione in generazione i Castromediano si tramandarono lo scettro di signori di Cavallino, dotandola di splendidi monumenti primo tra tutti il palazzo gentilizio eletto a loro dimora. Essa inglobò il primitivo polo dei de Noha a cui si innestò quello fortificato dal barone Luigi II de Castromediano e da suo figlio Sigismondo I come baluardo alle incursioni turche e saracene. Nel 1530 venne scavato un lungo seminterrato destinato ad accogliere magazzini per lo stoccaggio di prodotti agricoli, alloggi per la servitù del palazzo e una serie di locali per il ricovero di calessi e carrozze. Denominato sulla scia di una tradizione popolare castello, pur non presentando elementi tali da suffragare una marcata connotazione militare, esso venne edificato in diversi momenti: l’ingresso nel Quattrocento, il settore orientale nel Cinquecento e il prospetto occidentale nel Seicento. Con il passare dei secoli venne sopraelevato e munito di contrafforti per bilanciare i carichi dei corpi di fabbrica, che, progressivamente, si apportavano. Inoltre venne implementato con un’altra struttura architettonica suddivisa in due ordini da una modanatura marcapiano, con il muro laterale inclinato a scarpata e la facciata coronata da merli e protetta da tre caditoie.
Dal portone visibile sin dai primi basoli di piazza Castromediano appare lo spettacolare androne d’ingresso dominato dalla maestosa statua di Kiliano di Limburg, detto il Gigante, realizzata agli inizi del XVII sec. da Carlo Aprile, e corredata dall’iscrizione KILIANUS DE LIMBURGO P.S DE CASTROMEDIANO/DUX IN EXERCITU GUGLIELMI P.I – ANNO MDCV (Kiliano di Limburg primo dei Castromediano/Capitano nell’esercito di Guglielmo I – Anno 1605) a imperitura memoria del capostipite della dinastia disceso in Italia come capitano di ventura al soldo del re di Sicilia Guglielmo il Malo, dal quale, venne ricompensato con la concessione dei feudi lucani di Petra Pertosa, Castello Bellotto e Castello Mezzano. Da questo toponimo latinizzato derivò il cognome di Castrum Medianum italianizzato poi in Castromediano. Insieme al mastodontico Kiliano di giorno e di notte non perdevano di vista la dimora/fortezza i busti di due altri potenti feudatari: don Francesco, menzionato dall’iscrizione: D. FRANCISCUS DE CASTROMEDIANO DE LIMBURGO/PRIMUS MARCHIO CABALLINI (don Francesco di Castromediano di Limburg/primo marchese di Cavallino) e del figlio di costui don Domenico Ascanio, ricordato dall’epigrafe: D. DOMINICUS ASCANIUS DE CASTROMEDIANO DE LIMBURGO/DUX MORCIANI – MARCHIO CABALLINI (don Domenico Ascanio di Castromediano di Limburg/Duca di Morciano – Marchese di Cavallino).
Allo stato attuale si accede al piano nobile del palazzo nobiliare, salendo i gradini di una sinuosa scalinata, e, oltrepassando una balaustra, intagliata nella pietra, attraverso una porta monumentale in stile barocco si varca il salone di rappresentanza, un tempo costellato di arazzi e stemmi araldici, e ricoperto da volte a botte incardinate su archetti ogivali. In quest’ala, da cui si dominava lo scenario della piazza, un tempo si svolgeva l’attività giudiziaria (udienze, transazioni e mediazioni) dei feudatari, mentre oggi si accede agli appartamenti privati degli eredi dei quei patrizi e mecenati, i quali con i lori danari, ma anche con le decime della popolazione, angariata e oppressa, fecero brillare come un diamante il casale di Caballino. Lungo uno dei lati del salone venne costruita nel 1565 da Giovanni Antonio II Castromediano una cappella dedicata a S. Stefano recante sulle pareti scene dipinte dal pittore manierista Gianserio Strafella. Per privilegio di papa Pio IV essa venne dichiarata “pubblico oratorio” e, quando, si affermò prepotentemente il culto in onore della Beata Vergine del Monte, ne accolse il simulacro ligneo. Vestito con sontuosi abiti ricamati e ornato con gioielli e ori, donati come ex voto, esso viene traslato in processione puntualmente ogni anno la prima domenica di maggio in segno di autentica devozione. Alla Madonna del Monte venne dedicata una cappella nel comprensorio cimiteriale e intitolato un altare nella chiesa madre, a testimonianza del ritrovamento dell’icona bizantina da parte di un bifolco, che pascolava le mucche, e del prodigio del fulmine, che abbattutosi sul primitivo luogo di culto non provocò alcuna vittima tra i presenti.
Nel 1580 Sigismondo II, detto il Giovane, dopo aver acquisito per 9.300 carlini d’argento la sterminata contrada di Ussano consentì ai Castromediano di scalare la vetta del successo, attestandosi tra i latifondisti più facoltosi di Terra d’Otranto per le rendite del feudo, mentre si registrava un incremento dei fuochi corrispondenti ai nuclei familiari. L’apice della floridezza economica venne raggiunto però con Francesco Castromediano, figlio di Ascanio, il quale venne ripagato per la fedeltà dimostrata al re di Spagna, Filippo IV, con il titolo di marchese. La lealtà verso la monarchia spagnola venne premiata con ulteriori concessioni e con l’investitura di cavaliere dell’Ordine monastico-militare di Calatrava, titolo onorifico a carattere ereditario che consentiva ai Castromediano di entrare a pieno titolo nell’olimpo della nobiltà napoletana. Il prestigio del marchesato venne esaltato con mirabili opere architettoniche a partire da un ulteriore appartamento in seno al palazzo gentilizio, da una splendida galleria e da una sala di soggiorno delimitata, all’esterno, da una balaustrata barocca in pietra, movimentata da colonnine ornate e adagiate su mensole, e, all’interno, annessa ad una raffinata alcova riecheggiante sulle pareti deliziosi affreschi in stile pompeiano.
Ad essere concepita come meraviglia delle meraviglie del nuovo sfarzoso complesso architettonico fu la galleria completamente affrescata sulla volta a crociera con costellazioni astrologiche (Orsa Maggiore e Minore, Scorpione, Leone, Toro, Acquario, Capricorno, Orfeo, Sirio, ecc.) e con personaggi fluttuanti in un cielo ornato di stelle. Sul cornicione marcapiano vennero alloggiate le statue di personaggi della mitologia classica (Mercurio, Venere, Saturno, Giano Bifronte, ecc.), i busti relativi ai membri più rappresentativi della casata dei Castromediano e il gruppo scultoreo composto da Enea con il padre Anchise e il figlio Ascanio in fuga da Troia. Lungo i muri perimetrali del fastoso salone delle feste trovarono degna collocazione sedici statue raffiguranti diverse figure allegoriche tra cui: la Sapienza, lo Splendore, il Rumore, la Clemenza, l’Ingegno, il Dolore, l’Occasione, la Verità, l’Estro poetico, la Povertà ingegnosa, il Giudizio umano, l’Onor della virtù, secondo quanto rammentato da una tabella didascalica scritta in latino. Le opere scultoree vennero attribuite da Sigismondo Castromediano a Carlo Aprile mentre da Cosimo De Giorgi a Francesco Fiorio di Messina rinomato artista del XVII secolo.
In aderenza al rituale di auto rappresentazione nobiliare, tipica espressione di instrumentum regni, il casale di Caballino nel 1627 si vestì a festa e in una scenografia teatrale accolse la nobiltà di Terra d’Otranto lì convenuta per assistere alla celebrazione delle favolose nozze tra Francesco Castromediano Sanseverino e Beatrice, la graziosa figlia diciottenne di don Giovanni Acquaviva d’Aragona dei conti di Conversano e dei duchi di Nardò. Nel 1636 la marchesa Beatrice D’Aragona donò alla popolazione un pozzo dal quale si poteva attingere acqua sorgiva e potabile a differenza di quella attinta dagli altri pozzi circostanti considerata salmastra e maleodorante; esso venne scavato a un tiro di schioppo dal palazzo ducale e venne sormontato dalla statua di San Domenico di Guzman accompagnata dall’epigrafe QVAE VIVIS EFFULGET AQVIS ACQVAVIVA BEATRIX /PRIMA CABALLINI MARCHIONISSA DEDIT (colei che risplenderà di vivide acque, Beatrice Acquaviva/prima marchesa di Caballino, donò). In onore del canonico di Calaruega, considerato protettore di Cavallino, tra il 1626 e il 1635, la marchesa, intimamente intrisa di spiritualità domenicana respirata a Napoli, si prodigò per la costruzione del complesso monastico dei Domenicani.
Il monastero venne dotato di un sobrio prospetto in stile rinascimentale e si sviluppò intorno all’austero chiostro intervallato da colonne monumentali, dove vennero dislocate varie sale, locali di servizio, il refettorio, la cucina, un parlatorio e i magazzini. Al piano superiore, invece, vennero dislocate le celle destinate ai Frati Predicatori rinomati per combattere l’eresia e per rivestire il ruolo di giudici presso il tribunale della Santa Inquisizione. Alla sede distaccata dell’Ordine Mendicante, che ottenne dal munifico marchese il privilegio di riscuotere le decime su olive, uve, legumi e cereali provenienti dal feudo, venne annessa in un secondo tempo la chiesa intitolata a San Domenico e a San Nicolò. L’impianto planimetrico interno, scandito da tre navate intervallate da colonne, venne corredato di otto sontuosi altari finemente ricamati nella pietra leccese e incastonati lungo gli archivolti laterali in una fluidità compositiva straordinaria. Dopo un certosino restauro sono tornate all’antico splendore le tele raffiguranti la Vergine Maria tra schiere di santi, San Tommaso d’Aquino che combatte gli eretici, San Benedetto e Santa Scolastica che vegliano sulla famiglia marchesale, San Raimondo di Penafort, San Vincenzo Maria Ferreri mentre compie prodigi, San Domenico circondato da tre sante e venerato dai marchesi Castromediano disposti ai suoi piedi in segno di devozione e sottomissione alla Chiesa. Degni di nota il pulpito ligneo, scampato alla distruzione, e il quadro raffigurante la Madonna con in braccio Gesù Bambino colto nell’atto di porgere la corona del rosario a San Domenico immerso nella gloria delle gerarchie angeliche del Paradiso.
Di rara bellezza armonica il presbiterio, un tempo cinto da una balaustra ferrea a protezione del lapideo altare barocco, e la quinta scenografica, ricavata in fondo all’abside, per incorporare il cenotafio dei marchesi Castromediano accompagnato da una lunga e dettagliata iscrizione in latino. Il monumento funebre commemorativo, sorretto da due leoni, venne realizzato nel 1663 dallo scultore Placido Buffelli di Alessano, al quale fu affidato l’arduo compito di eternare il ricordo di don Francesco e donna Beatrice, ritratti in abiti tipici della nobiltà spagnola.
I due coniugi continuano a stringersi amorevolmente la mano, facendo trasudare dalla candida pietra il loro tenero amore come se il tempo si fosse fermato nell’abbraccio della morte, che li ha consegnati alla vita eterna. Donna Bice in dieci anni di matrimonio partorì nove figli, ma debilitata dalle innumerevoli gravidanze e dai parti complicati il 5 agosto del 1637 si spense prematuramente all’età di 28 anni. Così come il matrimonio anche i funerali vennero celebrati in pompa magna e per tre giorni fiumi di lacrime inondarono il catafalco della sfortunata marchesa tanto amata dal suo popolo. Don Francesco, affranto dal dolore, con la complicità del baccelliere, reverendo padre G. Palumbo, non esitò ad espiantare il cuore dell’amata sposa e di imbalsamarlo segretamente, in attesa di ricongiungerlo al suo, a suggello di un amore immortale. Intanto i lavori per l’erigenda chiesa domenicana proseguivano senza sosta in previsione di accogliere l’urna contenente le spoglie mortali di entrambi i marchesi uniti in vita come in morte.
Nel piano inferiore del luogo sacro che sorse sulle vestigia di una cripta basiliana dell’XI secolo, di cui si scorgono labili tracce di affreschi, venne riservato un luogo di sepoltura per i Castromediano in prospettiva di sfuggire, in caso di epidemie di peste e di colera, alla triste sorte della fossa comune. Proprio nel 1655 don Francesco per scongiurare l’epidemia di peste, che dilagava a macchia d’olio nel Regno di Napoli, impose ai suoi vassalli il restauro della cinta muraria e la fortificazione delle porte di accesso al paese. Sul viale del tramonto si intrecciavano le trame del canto del cigno di una nobiltà, che, lentamente ed inesorabilmente, iniziava ad assistere impotente allo spalancarsi del baratro del decadimento e delle ristrettezze economiche imputabili non solo a morbi e carestie, ma anche alla gretta politica di affidarsi ad un’economia agricola ormai soppiantata dalle più progredite tecniche agronome, di cui si ignorava l’esistenza.
Mentre i Castromediano si prodigavano affannosamente per completare le ambiziose opere architettoniche, intraprese come manifesto del loro potere e della loro munificenza, il popolo a cuor leggero, pur non disponendo dei mezzi finanziari necessari, stabilì che fosse giunto il momento di erigere la chiesa matrice, a cui nel 1787 per volere di don Gaetano Castromediano venne affiancato un campanile alto 43 metri dal suolo e sormontato da un cupolino riecheggiante modelli orientali. Nel 1630 partirono i lavori relativi al nuovo tempio, che inglobò quello precedente per consentire il culto, ricorrendo all’espediente di rialzare notevolmente il piano di calpestio. Si ricorse a questo espediente per scongiurare i periodici allagamenti, che puntualmente si verificavano nella zona circostante. Dedicato a Maria SS. Assunta in cielo, la cui effigie si staglia tra angeli, arcangeli, cherubini e serafini sulla volta a semicupola dell’abside, il luogo di culto a croce latina si presenta ad unica navata, coperta da volte a crociera, a cui precedentemente si innestava un transetto a due bracci. Oltre agli altari barocchi, muniti di colonne tortili ornate di festoni floreali, tra i quali quelli intitolati a San Giovanni Elemosiniere (fatto realizzare come ex voto dal marchese Fortunato Castromediano), alla Vergine degli Angeli e alla Vergine della Pietà, entrambi realizzati nel 1686, esso venne impreziosito dal teatrale apparato funebre dei Castromediano fatto cesellare nella pietra nel 1637 da don Francesco al di sopra di una semplice tomba di famiglia, “riserbandosene – secondo una lastra marmorea – il diritto di iuspatronato nel secolo XVII. Il cenotafio in stile barocco, sorretto da tre sfingi e sormontato da un timpano a volute, coronato dal busto di frate Tommaso Castromediano, figlio cadetto di don Francesco, venne incastonato tra due colonne corinzie, lungo le quali vennero allocati i semibusti di nobili personaggi defunti nominati nell’epigrafe, che aulicamente recitava.
Un ricordo struggente della fugacità del tempo e della caducità delle cose, ma soprattutto di uomini che, nel fiore della vita, vissero in nobiltà, condannando altri alla miseria con tasse, dazi, gabelle e imposte marchionali, cogliendo l’attimo sublime della bellezza artistica nel tentativo di rendere straordinario l’ordinario.
Nella miseria della quotidianità, scevra di gloria e di atti di eroismo, spiccò la nobiltà d’animo dimostrata dal figlio più illustre di Cavallino, Sigismondo Castromediano, incarcerato nel 1848 e condannato a scontare trent’anni di ferri nell’inferno delle galere borboniche con l’accusa di voler rovesciare il legittimo governo di Napoli al fine di contribuire alla causa dell’Unità d’Italia. Prostrato nel fisico dalle catene e ridotto in dignitosa povertà il Duca non rinnegò mai la causa patriottica, divenendo uno tra i personaggi di rilievo dell’epopea risorgimentale salentina. Eletto deputato e poi consigliere provinciale il povero Duca lottò senza tregua per la soluzione dell’annosa questione meridionale e per l’istituzione del Museo Provinciale per convogliare le collezioni archeologiche scampate all’aratro dei contadini e alle ruberie dei tombaroli. Rimasto senza un tetto per sopravvivere l’insigne patriota risorgimentale, dopo essere stato accolto nel palazzo degli antenati dal nipote Eduardo Casetti, figlio della sorella Costanza, svolse il ruolo di giudice conciliatore sino al 26 agosto 1895, quando la morte lo colse vegliardo con il pensiero rivolto ancora alle sue Memorie, Carceri e galere politiche e con il rimpianto dell’amore sbocciato, ma soffocato per non poter adempiere ai suoi doveri di nobiluomo nei confronti della baronessa piemontese Adele Savio di Bernstiel. Con la sua scomparsa e con quella dell’altro nipote Sigismondo, oberato da debiti e senza eredi, si estinse l’illustre progenie dei Castromediano, per lunghi secoli, patrizi e soldati, cavalieri e frati, collezionisti e mecenati, patrioti e deputati, signori e padroni incontrastati di un piccolo borgo convertito in regno principesco e trasmesso ai posteri sotto l’egida del mitico cavallo alato.
testo di Lory Larva
fotografie di Alessandro Romano
FOTOGALLERY CAVALLINO
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