Da un cuore pulsante, incastonato come un gioiello sull’arme civica, si sprigiona l’energia vitale (in corde vis vitae) di Corigliano d’Otranto, il cui toponimo affonderebbe le radici nel villaggio aperto (chôrion) bizantino, che alimentò il battito plurisecolare di uno dei più rigogliosi centri della Grecìa Salentina.
A partire dal IX secolo dalla sinodia di San Giorgio, culla di manoscritti, pergamene e codici, si ramificò la cultura ellenica, attecchendo nel territorio circostante sino a quando le fiamme appiccate dai Turchi, in concomitanza dell’assedio di Otranto del 1480, non avvolsero l’abbazia di San Nicola di Casole, innescando lentamente, ma inesorabilmente il declino del rito greco, finito sotto la scure dei Normanni fautori del rito latino.
Per risalire il fiume della storia di Corigliano d’Otranto occorre scavare nei gorghi del flusso migratorio bizantino per poi addentrarsi nei meandri delle successioni feudali, resistendo al canto delle sirene dei monumenti megalitici, quali dolmen, specchie e menhir, rimanendo sordi al frastuono di voci romane provenienti dai lotti abitativi, suddivisi sul modulo dell’actus tra via Capiterra e via Cavour, e ignorando la leggenda, alimentata dalla comune radice linguistica (con l’aggiunta del suffisso in anus) insita nel nome del colono Corilius o Corellius e in quella, del tutto priva di fondamento, connessa al console Gneo Marco Coriolano, che, alla testa dei Volsci, desistette a muovere guerra a Roma, commosso dal pianto della moglie e della madre, dando mandato alla fondazione dell’insediamento salentino.
Nel 1192 il feudo venne concesso dal re normanno Tancredi d’Altavilla agli Indrini fino a pervenire nel 1465, dopo una catena di generazioni di uomini d’arme, diplomatici, principi e funzionari (Sanfelice, Ceppoy, Tremblay, Enghien, Orsini del Balzo) alla casata francese dei De’ Monti (o Delli Monti) giunta in Terra d’Otranto al seguito di Carlo D’Angiò e investita del potere da Ferdinando d’Aragona. Furono i Delli Monti, investiti nel 1534 dall’imperatore Carlo V del titolo marchesale, a cambiare il volto del borgo di Corigliano dilaniato nel 1481 dalle bombarde ottomane dopo il sacco di Otranto. Qualche mese prima nel corso della drammatica imboscata, tesa dai cavalieri turchi nelle campagne di Minervino al conte Giulio Antonio Acquaviva, comandante delle forze cristiane di stanza a Sternatia, il valoroso Francesco Delli Monti, primogenito di Nicola Antonio, in appoggio alle milizie di liberazione, venne catturato e condotto a Costantinopoli prima di essere liberato in seguito ad uno scambio di prigionieri. Dopo una sfolgorante carriera diplomatica al servizio della Corona aragonese l’eroico feudatario, che aveva provveduto a ripristinare il castello e a potenziare le mura con sedici torri, articolate su due piani e con parapetto merlato, secondo quanto riportato dall’illustre Cosimo De Giorgi (testimone oculare di un’iscrizione andata irrimediabilmente persa), nel 1506 lasciò in eredità il feudo al figlio Giovan Battista. Il primo marchese di Corigliano non esitò a spalancare le porte della sua dimora per ospitare un cenacolo di letterati, poeti, filosofi e uomini di cultura attratti anche dalla colta moglie, la macedone Maria Bucali. Tra il 1514 e il 1519 Giovan Battista, artefice della cacciata dei ribelli filofrancesi, implementò il primitivo apparato difensivo svevo-angioino (XIII-XIV secolo), con la costruzione di un nuova fortezza, che, come ricorda un’epigrafe, venne fabbricata dal costruttore Angelo Lolli di Corigliano nell’anno del Signore 1514. Il poderoso fortilizio venne munito di munizioni e artiglierie a lunga gittata e dotato di torrioni angolari scarpati più bassi rispetto a quelli coevi per reggere a muso duro all’onda dirompente del fuoco nemico. Per esigenze puramente militari si optò per uno sviluppo asimmetrico a forma trapezoidale, che concedeva alla severa mole di troneggiare incontrastata, restituendo per giunta un’immagine di roccaforte inespugnabile.
I quattro torrioni rotondi, che sancirono il trapasso rispetto a quelli quadrati, vennero posti sotto l’egida di santi ai quali venne associata allegoricamente una virtù: a San Michele arcangelo (principe delle schiere angeliche) la fortezza, a San Giovanni Battista (per l’omonimia con il marchese) la giustizia, a San Giorgio (protettore dell’esercito bizantino) la prudenza, a Sant’Antonio Abate (anacoreta orientale) la temperanza. Nel 1651, con il declino dei Delli Monti, il feudo nel quale ricadeva il castello (definito nell’atto di vendita castrum seu fortellitium…cum turribus seu baloardis) venne acquistato all’asta dal possidente barone di Tutino, Luigi Trane, in prospettiva di donarlo al figlio. Nel 1664 il duca Francesco Trane incaricò l’architetto Francesco Manuli a procedere ad ammodernamenti strutturali, che segnarono la svolta epocale da rocca a palazzo ducale manifesto di un potere infarcito di reminiscenze mitologiche pagane e di emblemi cristiani. In netto contrasto con l’austerità architettonica precedente ne scaturì una scenografica facciata barocca, caratterizzata da un balcone mensolato e balaustrato, sormontato con l’arme araldica dei Trane. Così il complesso palaziale, scandito al piano nobile da sale di rappresentanza illuminate da ampie finestre a giorno e non più da tetre fessure, da camere delle alcove affrescate e da gallerie ornate con cornici e capitelli, finì di incutere timore, suscitando, invece, meraviglia, stupore e ammirazione. Nell’incalzante composizione iconografica ed epigrafica blasoni e cimieri, virtù teologali e cardinali, metafore e messaggi, statue allegoriche e busti di personaggi dialogavano tra loro, parlando linguaggi artistici diversi, sulla base di un repertorio iconografico celebrativo di ispirazione classica mutuato dai disegni dell’Iconologia di Cesare Ripa del 1593 e dai Ritratti et elogii di capitani illustri opera stampata nel 1635 a Roma a spese di Pompilio Totti.
Il racconto si dipanava dall’iscrizione cruciale, incisa ai piedi della statua del munifico duca, tra le figure allegoriche della carità e della giustizia, che così recitava: PONDERAT HEC CULPAS HEC EXIBET UBERA NATIS / HIC ASTREA MICANS HINC PELICANUS AMANS / FRANCISCUS TRANUS BARO TUTINI AC DOMINUS / STATUS COROLIANI CASTRUM HOC EXORNANDUM CURAVIT 1667 ossia: Questa (la giustizia) giudica i misfatti, quest’altra (la carità) porge le mammelle ai figlioletti; da un lato la splendente Astrea, dall’altro l’amorevole pellicano; Francesco Trane barone di Tutino e signore dello Stato di Corigliano si prodigò per abbellire questo castello nel 1667. Proseguiva poi attraverso l’intreccio per associazione tra busti di uomini illustri e statue di figure allegoriche (Cangrande della Scala – la tolleranza; Cristoforo Colombo – il desiderio del possesso; Giorgio Castriota Scanderbegh – la misura del tempo e dello spazio; Tamerlano – il castigo; Consalvo di Cordova – l’ardire magnanimo e generoso; Iacopo Capece Galeota – le mutevoli sorti della fortuna; Ferdinando Francesco d’Avalos – la fierezza; Antonio di Leyva – la verità) armonicamente bipartiti tra la semifacciata destra e sinistra del piano superiore sotto l’ala protettiva della musa della danza Tersicore o più probabilmente della musa della musica Euterpe. Nel volgere dei secoli, suggellati dalla metamorfosi dell’architettura rinascimentale a quella barocca, la primitiva connotazione difensiva andò completamente persa e il maniero ostentatamente ingentilito venne convertito in dimora residenziale magnificamente arredata e preservata dal fragore delle armi. Secondo Giacomo Arditi venne disarmato al declinare del secolo XVII e divisi i suoi cannoni tra la piazza di Napoli e quella di Taranto e di Otranto mentre il fossato trasformato in giardino di agrumi e frutti nell’auspicio di un ritorno alla terra. Dopo vari cambi di destinazione (frantoio, sede della Guardia di Finanza, mulino, fabbrica di tabacchi), a volte nefasti, è stato acquisito dall’Amministrazione Comunale che, dopo certosini interventi di restauro, lo ha riportato all’antico splendore.
Dell’antico circuito murario turrito sopravvivono brevissimi tratti, mentre delle due porte, innestate ai vertici dell’asse principale, soltanto una è scampata alla distruzione. Le tele settecentesche della chiesa matrice, collocate sull’altare dei santi Gaetano e Ignazio di Loyola e sull’altare di San Nicola, con la raffigurazione della processione di ringraziamento per la liberazione nel 1727 dal flagello delle cavallette, restituiscono due panoramiche delle fortificazioni, interrotte a nord dalla porta di sopra, detta in griko Anuporta, ormai demolita, e a sud dalla porta di sotto, detta in griko Cauporta, eretta per volontà di Giovan Battista Delli Monti e saldamente ancorata a ridosso del castello. Essa continua ad essere latrice del monito: INVIDIA INOPIA FA, ossia di non avere invidia di quello che è racchiuso all’interno dell’abitato.
Nel 1465 il feudatario Nicola Antonio Delli Monti, traendo ispirazione dalla maestosa guglia orsiniana di Soleto, fece innalzare una torre, inglobandola nella cinta muraria medievale. Concepita come torre di vedetta, avvolta nella semplice geometria delle sue linee, nel 1573 venne convertita in torre campanaria a cui venne affiancato il più importante edificio sacro coriglianese costruito su un preesistente luogo di culto, così come riportato dall’iscrizione scolpita sull’architrave. Intitolato dapprima a Santa Barbara il 27 ottobre 1743 il tempio venne consacrato da mons. Oronzo Alfarano Capece a San Nicola di Myra. Restaurato nel 1622 mantenne inalterati il cinquecentesco portale lunettato, recante le statue del Redentore, della Vergine Maria e di San Nicola, e il rosone di gusto rinascimentale valorizzato da maestranze della scuola di Gabriele Riccardi con una grata lapidea ornamentale e funzionale a far filtrare la luce. Interventi radicali furono compiuti nel 1880 con il trasferimento degli altari delle navate laterali. Nel 1877 a Giovanni Angelo Maselli furono affidati i lavori di rifacimento del pavimento musivo sul modello iconografico dell’albero della vita del bene e del male della cattedrale di Otranto arricchito con ramificazioni bibliche.
L’interno a croce latina, esaltato da un trittico affrescato nel 1576 sulla parete della controfacciata, si presenta a tre navate scandite da colonne su cui si raccorda la copertura della navata centrale ornata da cordoni a fogliami. Nella navata destra (in cornu epistolae) sono alloggiati gli altari di San Francesco da Paola, di San Nicola, di San Pietro martire, dell’Immacolata Concezione e del Santissimo Crocefisso (intitolato sino al 1875 alla Vergine del Rosario), mentre in quella sinistra (in cornu evangeli) sono ospitati gli altari settecenteschi dei Santi Gaetano di Thiene e Ignazio di Loyola, di Sant’Antonio di Padova, di San Luigi Gonzaga (precedentemente dedicato a San Domenico) e di Sant’Oronzo. Il transetto destro accoglie l’altare di San Nicola, intagliato ne1716 da Gaetano e Orazio Carrone, e quello della Madonna del Carmine, mentre quello sinistro l’altare della Madonna del Rosario. Di notevole impatto emotivo l’altare maggiore, cesellato nella pietra e indorato, che rifulge nella quinta scenografica della cantoria, dove svetta un settecentesco organo a canne in un tripudio di opere d’arte di incommensurabile valore.
Alla seconda metà del XV secolo risale la chiesa di San Leonardo, una delle più antiche di Corigliano. L’edificio isolato e di modeste dimensioni richiama la tipologia a capanna con campanile a vela. L’interno ad aula unica e copertura a botte unghiata presenta un unico altare sormontato da un affresco ormai sbiadito di San Leonardo sul quale ritorna l’arme araldica della casata dei feudatari Delli Monti. Degno di nota il rosone ad otto raggi posto in asse con il portale recante un’iscrizione latina.
In piazza San Nicola all’ombra della superba Torre dell’Orologio, ricostruita nel 1664 e restaurata nel 1770, culminante con un campanile a vela, continua a pulsare la vita di Corigliano scandita dallo scoccare delle ore lungo la linea di una meridiana. Nel labirinto di strade lastricate mantengono inalterato il fascino eleganti palazzi cinquecenteschi, come Palazzo Delli Monti, noto anche come palazzo Gervasi, particolare per le sue decorazioni di stampo rinascimentale; Palazzo Coia, rinomato per il suo motto CONTRA RAGGION INVIDIA NON HA LOCO scolpito nel 1563; e settecenteschi, quali Palazzo Comi, che si contraddistingue per il monumentale portale bugnato e gli ornati della falsa bifora del balcone superiore, oltre a palazzo Peschiulli, un tempo eletto a dimora dell’archimandrita dei salentini di rito greco e associato al poeta Andrea Peschiulli (Corigliano 31 dicembre 1601 – Roma 9 gennaio 1691) autore dei versi incisi sulla civica Torre. Un’arcata innestata sulla destra della facciata prospetta su una corte su cui si affacciano una serie di strutture retaggio di costruzioni cinque-seicentesche. Una di queste è corredata sugli architravi delle finestre di iscrizioni latine mentre sul parapetto di un’altra incombono ancora minacciose saettiere per allontanare i nemici.
Ma la punta di diamante di Corigliano rimane senza ombra di dubbio l’Arco Lucchetti sintesi della maestria di Nicola Robi, che nel 1497 lo scolpì con tanto ardore fino al punto di infondere nella pietra il suo sapere alchemico, intriso di mitologia, magia, esoterismo e filosofia, ricorrendo a stilemi medievali difficili da decifrare e interpretare senza un codice segreto. Nel vortice dei fitti intrecci di ricami e merletti, il portale monumentale, che consentiva l’accesso al caseggiato, dove risiedeva l’abile maestro scalpellino, si rimane quasi senza fiato.
Il respiro ritorna al vento del tempo delle fronde della quercia vallonea vigile sentinella del centro ellenofono fiorito nell’humus del suo passato bizantino sotterrato come un seme nella memoria dei racconti popolari.
testo di Lory Larva
fotografie di Alessandro Romano
FOTOGALLERY CORIGLIANO D’OTRANTO
Chiesa matrice
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