Cookie Consent by Free Privacy Policy Generator website Cuma e l’antro della Sibilla

Cuma e l’antro della Sibilla

Ho scalato l’acropoli dell’antichissima città di Cuma con un senso di gratitudine alla vita, mentre mi permetteva di camminare lungo questo lastricato, quasi fino in cielo, davanti al mare luminoso del Tirreno, qui, dove la civiltà giunse all’alba della Storia.

Il nome deriva dal greco, e significa “onda”, facendo riferimento alla forma della penisola sulla quale è ubicata. Il territorio dove sorse questa colonia greca fu abitato fin dall’età preistorica. Fra tutte le colonie della Magna Grecia, Cuma posta sul litorale campano di fronte all’isola d’Ischia, era una delle più antiche e più lontane dalla madrepatria. L’epoca della sua fondazione risale all’anno 750 a.C. e secondo la leggenda furono gli abitanti dell’isola di Eubea che, in navigazione sul Tirreno, scelsero di approdare in quel punto della costa perché attratti dal volo di una colomba o secondo altri da un fragore di cembali. Essi trovarono un terreno particolarmente fertile ai margini della pianura campana. Pur continuando le loro tradizioni marinare e commerciali, i coloni di Cuma rafforzarono il loro potere politico ed economico proprio sullo sfruttamento della terra ed estesero il loro territorio contro le mire dei popoli confinanti. Nel terzo libro dell’Eneide è scritto che Enea, se vorrà finalmente trovare la terra destinata al suo popolo dagli dei, dovrà recarsi ad interrogare l’oracolo di Cuma. Tante furono le battaglie che i Cumani combatterono per difendere la propria terra dagli attacchi degli Etruschi e dalle popolazioni interne della Campania, riuscendo sempre nell’impresa, fino a quando fu assoggettata dai Romani insieme a tutta la Penisola italiana. Dopo la fine dell’Impero, divenne uno dei maggiori centri del Cristianesimo campano e baluardo di civiltà. È anche il posto dove, secondo la tradizione, fu ispirato da una visione il celebre scritto paleocristiano “Il pastore di Erma”, uno dei testi cristiani più importanti della storia della Chiesa delle origini. Durante la guerra fra Goti e Bizantini, Cuma fu a lungo teatro di alterne vicende della lotta. Le scorrerie dei Saraceni le diedero il colpo di grazia, e nel Medioevo la città fu infine abbandonata. Giungendo qui a Cuma non possiamo non entrare nel famoso Antro della Sibilla, la somma sacerdotessa italica, che presiedeva l’oracolo di Apollo, di cui sopravvivono alcuni resti del tempio. Così percorriamo questa imponente galleria, e nei nostri occhi riverberano le immagini delle genti che migliaia di anni fa giungevano qui per avere un responso dalla Sibilla, pregando in un oracolo favorevole, fra i il profumo di olii e incensi che si spargevano fra queste rocce. La sacerdotessa, ispirata dalla divinità, trascriveva in stato di trance i suoi vaticini su foglie di palma, le quali, alla fine della predizione, erano mischiate dai venti provenienti dalle cento aperture dell’antro, rendendo i vaticini “sibillini”, cioè difficili e incerti da interpretare. La sua importanza era nel mondo italico pari a quella del celebre Oracolo di Apollo, a Delfi. Nel libro VI dell’Eneide, Virgilio, la definisce “longeva sacerdotessa”. Nel poema la Sibilla Cumana funge prima da veggente: si rifugia nell’antro “dalle cento porte” e viene invasata da Apollo, cambiando aspetto e timbro di voce. Quindi sollecita le domande di un Enea intimorito e risponde con oscuri vaticini, promettendogli l’arrivo alla meta, ma con nuove e sanguinose battaglie. Alla figura di questa Sibilla è anche legata una leggenda: Apollo innamorato di lei le offrì qualsiasi cosa purché ella diventasse la sua sacerdotessa, ed ella gli chiese l’immortalità. Ma si dimenticò di chiedere l’eterna giovinezza e, quindi, invecchiò sempre più finché il corpo divenne piccolo e consumato come quello di una cicala. Così decisero di metterla in una gabbietta nel tempio di Apollo, finché il corpo non scomparve e rimase solo la voce. Apollo comunque le diede una possibilità: se lei fosse diventata completamente sua, egli le avrebbe dato la giovinezza. Però ella, per non rinunciare alla sua castità, decise di rifiutare. In Ovidio, nel libro XIV delle Metamorfosi la Sibilla Cumana narra ad Enea del dono ricevuto da Apollo, di tanti anni di vita quanti i granelli di sabbia che era possibile stringere nella propria mano; dimenticando tuttavia di richiedere l’eterna giovinezza, la Sibilla era destinata a un invecchiamento lunghissimo nel tempo. Dante, costante evocatore dei miti virgiliani, cita anche la Sibilla, con particolari riferimenti alla difficoltà di cogliere il filo dei suoi responsi. E nel XXXIII canto del Paradiso il Sommo scrive: “Così la neve al sol si disigilla, così al vento ne le foglie levi si perdea la sentenza di Sibilla”. Lascio così questo luogo grato, dalle cui tombe monumentali riecheggia ancora la grandezza di un popolo, e davanti al cui mare che vide solcare la mitica nave di Enea, in viaggio per tutto il Mediterraneo, rivive in un lembo del nostro prostrato animo, il cuore degli Antenati.

ALESSANDRO ROMANO (chi sono)

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