Il Castello di Gioia del Colle è una fortezza di origine normanna situata nel centro storico della città. Il nucleo originario del castello, corrispondente all’ala destra, è di epoca bizantina, risalente al IX secolo. Esso consisteva di un recinto fortificato di forma rettangolare in pietra calcarea e carparo rosso. Era presente un piccolo cortile, adiacente alla muraglia meridionale,
che si apriva verso l’esterno in quella che adesso è piazza dei Martiri del 1799. Il castello aveva la funzione principale di dare riparo alla popolazione in occasione di scorrerie di genti nemiche.
Il castello venne poi ampliato da Riccardo Siniscalco, Siniscalco (titolo di alto funzionario reale o imperiale presso i Normanni) dei duchi di Puglia e primo feudatario del territorio dell’odierna Gioia del Colle.
Il documento più antico in cui viene fatta menzione del castello risale al 1111, sembrerebbe quindi che l’intervento normanno risalga al 1087.
Riccardo Siniscalco trasformò il nucleo originario in residenza nobiliare, allargando il cortile e recintandolo con un solido muro, e costruendo una delle torri, la torre “De’ Rossi”, sull’angolo Sud-Ovest. Il re Ruggero II, sempre di stirpe normanna, ne modificò parzialmente la fortificazione.
Il castello e l’abitato circostante vennero, poi, distrutti da Guglielmo I il Malo, quando questi recuperò il potere sulla terra di Bari. La sistemazione attuale si deve a Federico II di Svevia, il quale attorno al 1230 rifondò il castello di ritorno dalla IV crociata in Terrasanta e conferendone la struttura quadrangolare con cortile interno e quattro torri angolari, tipica dei castelli federiciani.
Il castello così voluto dall’imperatore faceva parte della rete di residenze e fortificazioni disseminate nel territorio dell’Italia Meridionale, dalla Capitanata fino alla Sicilia, destinate al controllo militare delle fertili regioni del regno.
Per tutta l’età sveva, infatti, il castello di Gioia del Colle fu sede di una guarnigione militare e solo pochi ambienti erano lasciati liberi e a disposizione del sovrano. Da alcune cronache e testimonianze sembra, tuttavia, che il puer apuliae amasse risiedere nel castello di Gioia per le sue battute di caccia nei boschi gioiesi.
Con la sconfitta di Manfredi alla battaglia di Benevento nel 1266, l’egemonia sveva sull’Italia meridionale terminò. Il castello di Gioia del Colle seguì le medesime sorti.
Dopo gli Svevi, esso passò quindi sotto il dominio degli Angioini e degli Aragonesi. Dopo Manfredi, secondo la leggenda nato a Gioia del Colle, il castello divenne quindi proprietà dei Principi di Taranto fino al ‘400, dei Conti di Conversano fino al ‘600 e dei Principi di Acquaviva fino agli inizi del ‘800.
Nel corso di questi secoli il castello fu trasformato da costruzione militare a dimora residenziale ed adattato alle nuove esigenze abitative, avendo perso ogni importanza militare e civile, pur mantenendo il suo impianto strutturale.
Dal ‘600, perdendo a mano a mano importanza, il castello cominciò una lunga fase di degrado e a subire deturpazioni, mantenendo tuttavia la struttura originaria a differenza di altri castelli di Puglia, che subirono vari adattamenti adeguandosi a nuove esigenze militari.
Per questa ragione il castello di Gioia del Colle costituisce una delle testimonianze più fedeli del periodo normanno-svevo. Dal 1977 il castello è sede del Museo archeologico nazionale di Gioia del Colle. Per un breve periodo, inoltre, il castello ha ospitato la Biblioteca comunale don Vincenzo Angelillo.
L’aspetto esteriore risente degli apporti stilistici dei differenti proprietari del castello; il contributo di Federico II di Svevia è tuttavia quello che maggiormente ha impattato sull’aspetto finale. L’opera federiciana si presenta infatti ecletticamente ricca di apporti diversi, tipica della tendenza dell’imperatore di affiancare stili molto differenti tra di loro, con un particolare riguardo all’architettura islamica.
Questo si nota nella varietà di motivi artistici all’interno del cortile e delle sale, ispirati appunto a modelli arabi filtrati attraverso modelli crociati, a cui si aggiunge il vistoso apparato di bugne che conferisce una nota di monumentalità alla severa ed austera costruzione normanna.
Questo procedimento architettonico, di valore esclusivamente decorativo, si evidenzia nelle bianche cornici calcaree a bugnato lungo gli spigoli delle torri e nelle originali aperture esterne sulla facciata delle cortine e delle torri. Il castello consta di un cortile interno attorno al quale sorgono gli ambienti di cui si compone il castello, organizzati in due piani. Ai due angoli sul lato Sud del castello sorgono due torri (denominate “De’ Rossi” e “dell’Imperatrice” e alte rispettivamente 26,4 m e 24,1 m) delle quattro originariamente presenti. Riferimenti a queste torri sono contenuti negli scritti di Honofrio Tangho del 1640 e di Gennaro Pinto del 1653.
Il materiale di costruzione del castello è prevalentemente pietra calcarea e carparo rosso. La muratura esterna è costituita di tre diversi tipi di strutture murarie che denunciano tre epoche diverse di realizzazione: piccoli cocci lapidei di pietra calcarea, sulla cortina Nord e Nord-Est; bugne rettangolari a bauletto con canaletti incavati, sulla torre dell’Imperatrice; bugne rettangolari poco aggettanti e schiacciate molto consunte dal tempo, su tutto il resto della costruzione. In particolare, il carparo rosso è stato utilizzato per realizzare le cortine e la parte alta delle torri; fino a 4,50 m di altezza su di queste ultime, infatti, sono state utilizzate bugne di pietra calcarea molto chiara, oltre che agli angoli delle torri e l’incorniciatura di portali, finestre e alcune feritoie.
Dal cortile si accede ai locali al piano terra destinati in antichità alle stalle, alla servitù e agli uomini d’arme, nonché al deposito di grano e vettovaglie. Queste ultime sale rappresentano l’esposizione del Museo archeologico nazionale di Gioia del Colle, che raccoglie i reperti provenienti dagli scavi archeologici effettuati nelle aree di Monte Sannace e Santo Mola.
Dalla scalinata presente in cortile si sale al primo piano dove sono presenti altri locali, a cominciare dalla sala del trono. In fondo a questa si trova un trono in pietra ricostruito nel corso del restauro del 1907, realizzato con frammenti scultorei recuperati nel castello in seguito alle demolizioni. Un fregio a bassorilievo costituito da una serie di falchi disposti di profilo a coppie e interrotti da croci decora lo schienale del trono. La copertura in legno originariamente presente è crollata nel corso dell’ultimo restauro e quindi sostituita con una struttura metallica, mentre il pavimento è stato ricoperto di elementi lignei. Nella sala sono presenti un camino, anch’esso risalente al restauro del Pantaleo, e vari sedili in pietra.
Dalla sala del trono si accede alla sala del caminetto, cosiddetta per la presenza di un piccolo camino. La sala era probabilmente abitata dalla regina e dalle cortigiane che trascorrevano in questo locale gran parte della giornata. Una porta, sormontata da uno stemma araldico, conduce alla sala del Gineceo; una seconda porta invece conduce alla torre De’ Rossi. La torre De’ Rossi fu costruita in epoca normanna, e poi inglobata nell’impianto federiciano. Il nome deriva da una nobile famiglia toscana che vi alloggiò quando venne a Gioia del Colle ad omaggiare l’imperatore. La volta che copre la sala è formata da dodici archetti acuti pensili, uniti da una sottile cornice quadrata con motivi fitomorfi; ai quattro angoli, nei vani degli archetti, ci sono quattro elementi decorativi a conchiglia. Essa fu probabilmente realizzata nel XVI secolo.
La torre era composta di tre piani di cui restano solo le mensole su cui poggiavano le travi dei solai in legno, crollati ma non ricostruiti. Ai piani superiori si accedeva tramite scale a pioli in legno. Dall’ultimo piano si raggiungeva la piattaforma esterna attraverso una scala a chiocciola in pietra, poggiante su una lastra sporgente dal muro.
Sul lato meridionale del cortile si trova l’accesso alla sala del forno, dalla quale si scende in un piccolo sotterraneo, adibito in antichità a prigione, su una parete della quale sono scolpite due rotondità, che secondo la leggenda riproducono i seni di Bianca Lancia, amante di Federico II di Svevia. Stando alla medesima leggenda, l’imperatrice partorì Manfredi, avuto dalla relazione con Federico II di Svevia, nelle prigioni del castello.
Gioa del Colle cela nel suo bel castello una splendida raccolta d’arte antica, eredità delle popolazioni Iapige, o Apule, che abitarono quel territorio: i PEUCEZI. I Peucezi o Peuceti furono un’antica popolazione italica.
Taluni sostengono che il nome sia in realtà un dispregiativo utilizzato dai Greci per indicare tale popolazione, il termine Peudicli, come dice lo stesso Strabone. Un altro toponimo usato sulle mappe geografiche del Medioevo fu Poediculi per indicare abitanti delle colline, cioè delle Murge. I peuceti insieme ai Dauni costituivano il popolo degli Iapigi o Apuli. I primi si stanziarono all’interno della Puglia centrale, con centri principali quali Butuntum (Bitonto), Rubi (Ruvo), Silvium (Gravina), Azetium (Rutigliano) e Thuriae (Gioia), mentre i secondi nella parte settentrionale della Puglia.
Secondo Dionigi di Alicarnasso il nome deriverebbe da Peucezio, figlio del Licaone dell’arcadia e fratello di Enotro. Peucezio sarebbe stato ispirato a cercare fortuna all’estero dopo che Licaone divise l’Arcadia fra i suoi ventidue figli. Questo mito è considerato verosimile dagli scrittori moderni, i quali affermano che la Peucezia era culturalmente parte, se pur poco importante, della Magna Grecia.
Erodoto offre invece una versione diversa dei fatti: dopo la morte del re Minosse un gruppo di Cretesi navigò in cerca della Sicania e tentò di assediare il centro di Camicus per cinque anni. Fallito il tentativo di conquistare la città i Cretesi partirono dalla Sicania per ritornare a Creta. Una furiosa tempesta però fece approdare le imbarcazioni in quella che sarebbe diventata la Japigia.
Dal VII secolo a.C. Gli abitanti della Puglia (Japigi) si distinsero in Dauni (nel foggiano), Peuceti (nel barese) e Messapi (nel leccese).
La vicinanza dei Messapi e dei Peuceti alla greca Taranto, se per i primi secoli della colonia si presenta come una convivenza pacifica, cambia con la fine del VI secolo e inizi del V secolo a.C. In almeno due momenti i Messapi e i Peuceti si sono alleati contro la greca Taranto; infatti i Messapi e i Peuceti nel 473 a.C. Infliggono ai tarantini una cocente sconfitta.
Intorno al VI-IV secolo a.C. Sia Callimaco che Clemente Alessandrino riferiscono di un assedio compiuto dai Peucezi ai danni di Roma.
L’attribuzione dell’episodio ad un reale evento storico è ancora dibattuta: secondo Gaetano De Sanctis, tale assedio sarebbe stato quello condotto da Porsenna nel 509 a.C., mentre Lorenzo Braccesi, sostiene che l’assedio di Roma di cui Callimaco riferisce negli Aitia non sarebbe quello di Porsenna, ma quello condotto dai Galli Senoni (Sacco di Roma), avvenuto nel 390 a.C.
Quest’ultima ipotesi ha indotto a considerare l’eventualità che agli occhi dei Greci l’immagine dei Peucezi si sovrapponesse con quella dei Piceni e con quella dei Galli Senoni (fondatori di Senigallia, sul confine a nord della zona occupata dai Piceni).
L’arte dei Peucezi si concentra soprattutto nella produzione vascolare dove troviamo molte analogie con la produzione Daunia.
I centri principali furono Butuntum, Rubi, Silvium, e Azetium. L’attuale capoluogo Barium fu poco importante. In seguito il territorio che costituiva la parte centro-settentrionale della Puglia, ossia tutta la Peucezia e la Daunia, venne chiamato con il termine Apulia. A sud dell’Apulia era invece la Messapia.
«A nord si trovano le popolazioni chiamate in greco Peucezi e Dauni, ma gli indigeni chiamano Apulia tutta la regione dopo la Calabria e Apuli la popolazione» (Strabone – Geografia VI, 3, 1).
In realtà furono i Romani ad utilizzare maggiormente il toponimo Apulia. In particolare la II Regio veniva distinta in Regio II Apulia et Calabria, dove con Calabria si intendeva l’odierno Salento all’epoca abitato dai Messapi).
Il Museo archeologico nazionale di Gioia del Colle viene istituito nel 1977, è situato nelle sale al pian terreno del castello normanno-svevo e raccoglie i reperti archeologici provenienti dagli scavi nelle aree di Monte Sannace e Santo Mola, che hanno portato alla luce un insediamento di antichi Peucezi.
Successivamente alcuni reperti provenienti dagli scavi a Murgia San Francesco hanno arricchito la collezione del museo.
Parte del materiale rinvenuto a Monte Sannace si trova nel Museo archeologico provinciale di Bari, in quello di Taranto e in altri musei. Altri reperti, provenienti da scavi clandestini, sono sparsi per il mondo o fanno parte di collezioni private.
I reperti esposti risalgono al Neolitico e all’Età del bronzo e del ferro. Gli oggetti in esposizione comprendono vasi geometrici e figurati, armi e oggetti in bronzo, fibule e ornamenti personali, statuine fittili, che componevano i corredi delle sepolture; ceramica d’uso domestico e da mensa, pentole, fornelli, macine e utensili vari, riferibili alla vita quotidiana e alle attività dell’antica popolazione.
Fra gli oggetti in esposizione, inoltre, alcuni bronzi che costituivano parte dell’armatura di guerrieri del V secolo a.C. (un elmo di tipo corinzio e un omerale) e svariati tipi di vasi.
Il popolo dei Peucezi, come il resto degli Apuli, mostra un notevole evoluzione artistica con l’influenza dell’arte Greca cui viene a contatto nel periodo dell’ellenizzazione dei primi secoli a.C. Verrà poi inglobata lentamente nella tradizione artistica di Roma all’avvento della romanizzazione dell’Apulia.
Derivata dalla straordinaria pittura a figure rosse dell’attica, la produzione pittorica vascolare apula si diffonde velocemente in tutta l’Apulia con caratteri locali e vari livelli di qualità artistica. Solitamente è caratterizzata da una esecuzione affrettata e da una cura e minore dettaglio, rispetto a quella Attica, nell’anatomia e nei particolari delle figure.
Facciamo insieme una carrellata fra le meraviglie di questo splendido Museo!
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