Giorgio Castriota Skanderbeg. Per mare era stato portato via bambino, dai turchi, strappato al padre Giovanni, patriota che difendeva l’Albania, rialzandosi dopo aver morso la polvere, contro un nemico troppo più forte. Giorgio fu allevato, cresciuto e istruito da turco. Divenne un grande generale dell’impero. Tuttavia, un giorno, divenuto uomo,
e incontrata gente della sua nazione, fece un tuffo nella sua mente. In un mare dal calore intimo, di colpo ricordò le sue origini, e tutto gli fu chiaro: il suo posto nel mondo e le sfrenate ambizioni turche; essi volevano dominare il mondo, e in modo abietto dissimulavano, ingannavano, tramavano nell’ombra.
La decisione che prese, in forma di fulmine nella notte, squarciò con un lampo la sua mente. Ribellione. Spada. Lotta. Con un falso documento autorizzato dal sultano Murad, che lo chiamava “Figlio mio”, entrò nella sua città, Croia, e ne fece uscire la vecchia guarnigione. Dopo di che, fece abbassare la bandiera turca ed issò quella rossa con l’aquila a due teste.
Da quel momento, per 25 anni, i turchi gli mandarono contro le più grosse armate, i cannoni e le armi più micidiali, i predoni più spietati, provenienti da ogni angolo dell’impero. Ogni anno, per domare la ribellione. Ogni volta dovevano fare dietro front, sconfitti da una razza di testarde capre di montagna, infinitamente inferiori di numero, ma risoluti ad essere i padroni della propria terra e il proprio destino. Così Giorgio riabbracciò la sua gente, con poche e calde parole: “Non fui io a portarvi la libertà, perché l’ho trovata qui, in mezzo a voi”.
Murad si ammalò per la rabbia, e morì a 49 anni senza essere riuscito neanche a tornare in patria. Ma suo figlio Maometto II, il tremendo conquistatore di Costantinopoli, partì a sua volta per ridurre all’obbedienza gli albanesi. Il suo progetto, conquistata l’Albania, era sbarcare dall’altra sponda e arrivare fino a Roma, dove avrebbe impiccato il papa e fatto erigere ovunque moschee per Allah. Era alla testa di un esercito immenso, il più potente e moderno di quel tempo.
Ogni primavera le truppe marciavano sull’Albania, ed in autunno, dopo essere state tenute in scacco, erano costrette a tornarsene scornate a Istanbul. Gli albanesi vissero un dramma terribile e grandioso. I villaggi furono devastati, i raccolti razziati, le donne e i bambini deportati, le città distrutte e incendiate. Eppure non si arresero.
La guerra continuò. Il panico regnava in tutta la nazione, e generava mostri alla luce del sole. Incubi che toglievano il respiro alle persone.
Con gli occhi rossi di pianto, la gente si incontrava e si salutava ogni giorno come se fosse l’ultimo giorno. Nei pressi di Petrela qualcuno vide due eserciti sfolgoranti scontrarsi nei cieli e mandare lapilli tutto intorno, in un’eco assordante di tuoni e cannoni.
Una notte, nel cielo di Croia qualcuno vide agghiaccianti chimere con occhi di brace, attorno al castello, sputare fiamme nell’atto di risucchiarlo. E poi, in pieno giorno, si videro levarsi tre lune da oriente, come tre fiamme dell’inferno. Piovevano pietre dal cielo. Nei fiumi l’acqua diventava rossa. E a Tornac un neonato gridò terrorizzato nella culla: “Arriva il turco!”. Le battaglie rimbombavano di duelli omerici.
I turchi si lamentavano che su quelle montagne non riuscivano a salire neanche i corvi, come quei diavoli di albanesi. Il sultano corrompeva molti generali di Skanderbeg, nell’intento di indebolirlo e avere più speranze di successo.
Il tradimento più doloroso fu quello di Mosè di Dibra, quasi un fratello per Skanderbeg, che promise al sultano l’Albania su un piatto d’argento. Ma nonostante guidasse un grosso esercito, fu sconfitto anche lui, il suo esercito distrutto.
Per la vergogna, non tornò a Istanbul, ma con un cappio al collo in ginocchio da Skanderbeg, supplicando perdono. Il Castriota, come il padre del figliol prodigo nella parabola evangelica, lo baciò sulla fronte e gli diede di nuovo il suo posto nell’esercito, proibendo a chiunque di ricordare più l’episodio del suo tradimento.
Il Papa pregava per Giorgio, lo nominò “Atleta di Cristo”, e speranza di tutta l’Europa cristiana. In battaglia si lanciava così velocemente che chi lo vedeva giurava lui volasse. Dove non arrivava la sua forza, sempre inferiore numericamente, arrivava la sua furbizia.
Come quando nelle notti in cui il turco dormiva nell’accampamento, legava delle torce sulle corna di un branco di capre, e insieme a esse si gettava a perdifiato giù per i fianchi della montagna: pareva un esercito intero, e sconvolgeva nel sangue l’intontimento dei nemici.
Poi continuava a reclutare gente dalle campagne, facendo a braccio di ferro con ognuno di essi, e spingendo un contadino a diventare signore della propria terra. Maometto II continuava a subire rovesci, malgrado lentamente stringesse il suo cerchio di fuoco intorno a Croia.
Dopo l’ennesima vittoria, un giorno Skanderbeg fu colto da febbre e dovette mettersi a letto. L’ira del sultano però era divampata a tal punto da armare un’altra spedizione in pieno inverno. Appena giunta la notizia, l’eroe fece per alzarsi dal letto per montare a cavallo, ma ormai roso dalle febbri non riuscì a muoversi.
La sua guardia pretoriana andò in battaglia stavolta senza il suo comandante. E generò ugualmente terrore fra i turchi, che pensando arrivasse Skanderbeg si diedero alla fuga, e finirono per essere sbaragliati dai montanari che si appostavano fra le gole.
Quando tornarono al suo letto per riferirgli della splendida vittoria, Giorgio già rantolava. I medici gli dissero che non aveva più speranza. Lui chiamò tutti i suoi generali intorno a sé, li salutò e li incitò a continuare la guerra. Ringraziò, e spirò a 63 anni il 17 gennaio 1468.
Quando lo seppe, Maometto II esclamò: “Questa terra non vedrà mai più sorgere un simile leone! Adesso Asia ed Europa sono mie! Guai per i cristiani, che hanno perso lo scudo e la spada!”, e ordinò di intensificare le operazioni. La guerra durò altri undici anni, le poche risorse finivano, i guerrieri morivano, i più si arrendevano. Il cerchio intorno a Croia stava per chiudersi. Il figlio di Skanderbeg, ancora ragazzo, fuggì insieme alla madre a Napoli: qui li ricevette il re Ferrante, che accolse il piccolo Giovanni come suo figlio, in debito per l’aiuto che suo padre gli aveva dato in precedenza, quando rischiò di perdere il trono e Giorgio venne in Italia con i suoi guerrieri per ridargli il regno. Le genti che lo videro guidare quei cavalieri che parevano volare, non lo dimenticarono mai, e sempre ne parlarono con stupore. Il re Ferrante in segno di grande riconoscenza, diede agli albanesi diverse terre, sparse fra la Puglia e la Calabria (i cui discendenti, ancora oggi parlano la lingua di Skanderbeg). Croia cadde per fame dopo 13 mesi di assedio. Gli abitanti, vedendo che arrivava Maometto II in persona, si arresero a lui, chiedendo di poter in cambio avere salva la vita. Il sultano accettò, ma con la slealtà sanguinaria di cui era solito, appena usciti i superstiti fece sgozzare gli uomini, e portar via tutte le donne e i bambini. Il pazzo si vendicò così di più di 30 anni di sconfitte, e dopo averne sterminato gli abitanti volle persino cancellare il nome di Croia, una volta per tutte. Entro il 1479, tutta l’Albania fu presa. E consegnata a una violenza che doveva durare 500 anni, plagiando un popolo per sempre, nei costumi, le tradizioni e la fede cristiana. Chi poté, fuggì, in migliaia, nelle terre dell’Italia meridionale che erano state concesse al Castriota. Il papa, incontrando i profughi, sospirava triste: “Nessuno può vedere, senza versare lacrime, questi esuli nei porti d’Italia, affamati, mal vestiti, strappati al loro focolare, lì sulle rive del mare, alzare le mani al cielo e piangere e lamentarsi in una lingua che non riusciamo a capire”. Pensava quasi di dover abbandonare Roma. Temeva. E ne aveva ben ragione. Passato l’inverno, giunse l’anno 1480. Maometto II attraversava il mare, per la conquista dell’occidente. Ma questa è un’altra storia.
Per valutare appieno la straordinaria figura di Skanderbeg, lo studioso Alessandro Laporta riportava in una prefazione le parole di Fan Noli (1882-1965): “Egli visse nel XV secolo, mentre noi viviamo nel XX, cosa rappresenta lui per noi dopo cinque secoli? Bisogna riconoscere che è ancora vivo, fra di noi. Siamo riusciti a liberare il nostro Paese nonostante tutti gli ostacoli: nel 1912 Ismail Qemal innalzò a Valona la bandiera di Skanderbeg e proclamò l’indipendenza albanese. Egli è ancora oggi il nostro ispiratore”. Egli incarnò il suo Paese, troppo piccolo per non suscitare le ambizioni dei vicini, troppo fiero per accettare qualsivoglia sudditanza, punto di incontro e di scontri, crocevia fra oriente e occidente, e forse proprio per questo, occasione di pensosa riflessione sulla pace e la convivenza. Per scrivere questa pagina, la mia fonte è stata il libro del già citato Noli, “Scanderbeg”, un lavoro certosino in cui lo storico ha ripercorso prima tutto il quadro storico-geografico, per poi narrare la sua vita.
Ma per vivere questa vicenda appieno, io consiglio anche la lettura del romanzo di Ismail Kadarè, “I tamburi della pioggia”, in cui il lettore viene catapultato nella Storia con l’emozione tipica che riesce a dare un romanziere. Penna raffinatissima e “vera”, più volte ad un passo dal premio Nobel per la Letteratura, così scrive l’autore nell’introduzione del suo libro: “La lotta pluridecennale del XV secolo non era stata condotta invano. Divenne anzi l’elemento essenziale dell’uomo albanese. Dal fondo della memoria della Nazione, il suo ricordo è incessantemente risorto in tutto il suo splendore. In questi ultimi cinque secoli, parecchie volte gli Albanesi sono insorti contro l’usurpatore. Hanno dovuto sopportare patimenti e colpi quanto mai crudeli, fino al giorno in cui, col volto martoriato ma a fronte alta, hanno conquistato l’indipendenza.
Leggendo questo romanzo il lettore non mancherà di stabilire un parallelo fra tali eventi e quelli del conflitto albano-sovietico del 1960, allorché l’Albania, il paese più piccolo del campo socialista, fu oggetto di un feroce blocco economico e politico da parte della superpotenza sovietica. In questo confronto, l’Albania non si piegò mai. Fronteggiò vittoriosamente i ricatti e il blocco, e non vi è dubbio che il ricordo che la rivolta di Skanderbeg abbia contribuito alla fermezza di tale atteggiamento. La Russia non osò attaccare l’Albania. La tragedia ebbe luogo in Cecoslovacchia. L’indomani dell’invasione di questo paese, gli Albanesi, così come avevano arditamente stracciato i firmani del sultano, non esitarono a denunciare il Patto di Varsavia. La Storia, in un certo senso, si ripeteva”.
Ringrazio Armand Alushaj, che con squisita gentilezza mi ha fornito le immagini tratte dalla biografia dello Skanderbeg scritta da Marin Barleti (1450-1513), il cui prezioso testo ha lui fotografato nella Biblioteca di Trento, dove è custodito. E che hanno fatto splendida cornice a questa storia che deve continuare a essere tramandata. Di seguito, le foto del memoriale di Giorgio Castriota, sui ruderi dell’antica cattedrale di San Nicola, a Lezhë (Alessio, Albania) scattate dall’amica Tiziana Colluto.
(Clicca QUI se vuoi vedere la mostra storica sull’eroe)
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