Nell’immaginario comune di Lecce, “città-chiesa”, in molti faticherebbero a immaginare che la celebre capitale barocca del sud Italia, che ha dato dimora e ha visto fra le sue vie l’opera di sant’uomini acclarati (vedi ad esempio San Bernardino Realino), sia stata scomunicata per intero dalla Santa Sede, e per un certo numero di anni! Stiamo parlando dell'”interdetto”
fulminato dal vescovo Fabrizio Pignatelli sulla città e la sua diocesi, nel 1711, e poi confermato da Clemente XI lo stesso anno. Pochi periodi della storia leccese sono così vivaci e animati da una documentazione molteplice, in cui si muovono e agitano personaggi di primissimo piano nella storia italiana settecentesca. L’interdetto è la pena più grave che la Chiesa infligge ad una persona, o a tutta una comunità, per una colpa gravissima commessa contro le leggi ecclesiastiche. L’ultimo interdetto che il Vaticano ha comminato contro una città del Salento è quello del 1913. Pio X lo fulminò sulla città di Galatina per l’attacco violento alla persona dell’arcivescovo Giuseppe Ridolfi, a causa delle fazioni politiche che in quei tempi imperversavano nel paese. Ma l’interdetto, in questo caso, durò pochi mesi, mentre la città di Lecce non vide svolgersi battesimi, matrimoni e altri riti, persino funerali, per diversi anni.
La vicenda dell’interdetto leccese dà modo di conoscere la complessa situazione della vita cittadina in un periodo di lotte, schermaglie, ingiurie, lotte politiche, familiari e personali, che coinvolsero colpevoli e innocenti. Il contrasto profondo tra autorità ecclesiastica e la popolazione fu la causa di tutto, e comportò la cattura e deportazione del vescovo Pignatelli fuori del Regno, e poi l’espulsione dalla città del vicario generale Scipione Martirani, oltre al carcere per i parenti dell’uno e dell’altro!
La riduzione delle franchigie a favore dei preti, la demolizione dei molini tenuti dai Religiosi, la miseria di una grossa parte della popolazione, che reclamava un miglior tenore di vita sono i fattori che emergono dall’analisi delle fonti storiche, custodite nell’Archivio vaticano.
Quel che più colpisce è il rapporto Stato e Chiesa: la teoria, in materia dottrinale e giuridica, distingueva bene i due campi, ma la pratica portava ad altri risultati. Dietro lo schermo di un simile scandalo si può intravedere la tenacia del potere civile a mantenere l’ordine, già da diversi punti e cause rivelatosi instabile, nel territorio del regno napoletano; la paura dei governanti che le popolazioni dovessero trovare un qualsiasi appiglio per scuotere un giogo che mal sopportavano; il sospetto, sempre presente, che la Santa Sede varcasse i limiti del suo potere, mentre era evidente che la Corte di Vienna e quella di Spagna non esitavano ad urtare contro gli ordini del Papa, qualora questi non rispondessero più allo scopo di «instrumentum regni».
Molto spesso, nelle fonti storiche del periodo, ritorna la constatazione d’una Lecce importantissima: la città più in vista, dopo Napoli, la capitale del Regno, per popolazione, rapporti sociali, volume di affari e di tasse, notorietà di ceti rispettabili.
Otranto era da tempo tramontata, dopo l’attacco turco del 1480: le era rimasta soltanto la gloria d’un passato epico e la croce patriarcale del metropolita, al quale spesso i pontefici davano mandato di vigilare e dirimere questioni, in quel periodo di anarchia ecclesiastica, in Lecce, che va dal 1711 al 1719. Tanto durò la scomunica.
Poi le acque si calmarono. Non del tutto, perché successivamente vi fu un altro periodo burrascoso, anche se più breve. E sul ricordo di questa vicenda, fra la gente comune, calò rapidamente il velo dell’oblio. Ma la Storia non dimentica, e reclama sempre le sue ragioni.
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