Lucio Parrotto era in pensione quando lo conobbi, nella sua Casarano qualche anno fa, visitando il Museo del Minatore che ospita la città, importante testimonianza dei sacrifici e l’emigrazione verso le miniere del Belgio che dovettero sopportare migliaia di italiani, e fra i tanti salentini anche lui, spirito energico, occhi vivi e indomiti, il respiro pesante per una vita passata sotto terra.
Gli chiesi di raccontarmela, la sua storia. “Va bene, ma tu poi mi prometti che vai a vedere il monumento al minatore, che è importante”. “D’accordo”, sorrisi, mentre Lucio tornava con la mente alla fine degli anni 50. “Non c’era lavoro, nel Salento. L’unica era lavorare la terra, ma con sole 200 lire al mese non si sopravviveva. Successe che il Governo aveva stretto un accordo col Belgio, che cercava gente che volesse lavorare nelle miniere di carbone.
Per ogni uomo procurato, l’Italia avrebbe avuto una rendita di 100 kg di carbone. Partimmo in massa. Alla fine ne partirono in migliaia di più di quanti il Belgio ne avesse chiesto. Prima di espatriare dovevamo superare le visite mediche, e allora affrontammo una lunga serie di uffici e reparti diversi. Partivamo, senza sapere minimamente a che cosa si andava incontro.
Una volta arrivati in Belgio, noi italiani fummo alloggiati nei locali che i nazisti usavano come prigioni per gli ebrei. C’era ancora il filo spinato tutto intorno.
In quelle stamberghe senza pavimento, il gelo entrava da ogni parte, da ogni fessura o pertugio. Ma il peggio stava per cominciare… Il lavoro era durissimo, dovevamo stare nudi, a più di mille metri sotto terra, convivendo con i topi, che per ordine dei superiori non si potevano neanche scacciare: erano loro che ci avrebbero avvisati, in caso di pericolo di fuochi o fughe di gas.
Eravamo costretti a lavorare anche nei tunnel alti 30 centimetri. I più deboli impazzivano. Chi si rifiutava, lo rinchiudevano in una cella prigione per 15 giorni, finché non cambiava idea. Altrimenti veniva espulso dal paese, con la condanna di non poterci più rientrare. Chi restava, imparava a convivere col proprio corpo nero e la paura dentro, di qualsiasi cosa che poteva succedere ogni giorno. Le frane, gli incidenti e le tragedie non si contavano.
Avevamo solo la pausa pranzo, per fermarci 15 minuti e mangiare un boccone. Ma c’era chi continuava a lavorare anche allora, per poter produrre più carbone e soldi da mandare a casa. Una volta, proprio durante una di queste pause, che io mi ero fermato per mangiare, sentii la frana, nella zona dove lavorava un ragazzo di Melissano. Accorremmo, chiamammo aiuto, ma era già troppo tardi. Era quasi sepolto, quel ragazzo, da una trave enorme che se lo stava portando. Riuscii solo a tenergli sollevata la testa, e lo sentii mormorare fra sé e sé: poveri figli miei.
Io fui fortunato, me la cavai sempre con qualche infortunio, o qualche tempo in infermeria. Mandavo 1000 lire al mese, a Casarano, e feci la casa per la mia famiglia. Certo, anch’io come quasi tutti contrassi la malattia polmonare del minatore. E mio fratello, che feci venire io fin lassù, morì di questo, come tantissimi altri ragazzi. Fu lì che incontrai la mia futura moglie, e quella vita ci unì per sempre.
Poi accadde la tragedia più grande, in una miniera vicino alla mia, a Marcinelle. Sentii l’esplosione. Quei poveracci rimasero senza ascensore, senza via di fuga, topi in trappola a più di mille metri sotto terra. Non credo ci sia una morte peggiore…
I corpi carbonizzati che riuscirono a tirare fuori, si sbriciolavano atrocemente, e finivano in polvere appena li si sfiorava. Ma dopo ogni tragedia si continuava a lavorare. Solo a Marcinelle concessero un giorno per farci fermare.
Andai in pensione dopo 30 anni. Al ritorno in Patria, non c’erano più tutti quegli uffici che avevo dovuto superare prima di partire.
L’Italia si disinteressava di come i suoi figli tornavano a casa. Della nostra salute, minata per sempre. Ma poi, anni dopo, il Governo si ricordò di noi, perché aveva deciso di tassare le nostre pensioni del 27%. Ah, ma questa non potevo proprio fargliela passare. Non pagai!
Avevo lavorato una vita per quella mia casa, non ce li avrei fatti entrare gli esattori! Le cose si misero male, e allora andai a battagliare direttamente a Roma. Portai il Governo in tribunale, ma alla fine la causa la vinsi io. Le nostre pensioni non furono toccate”…
Non c’era rancore nei suoi occhi, mentre raccontava, o astio nella voce. Solo una consapevolezza, una sorta di rassegnato stupore, al quale non si voleva abbandonare. Nel congedarmi mi ricordò ancora di andare a vedere il monumento al minatore, che lui aveva voluto per ricordare quello che era stato…
Guardando la foto della sua famiglia, gli volli ancora più bene, sorrisi, nel rispondergli: “Certo, certo. Qua la mano, ora. Tu sei il monumento, Lucio”.
Spero mi perdonerai, questo ritardo, ora che non ci sei più… e magari hai ritrovato anche la beltà della tua giovinezza perduta…
… questo è il monumento che ogni salentino deve almeno sapere che esiste…
…per rispetto del lavoro, la fatica, il sacrificio…
…di tanti dei nostri paesani che sono morti per dare un futuro alla loro famiglia.
(grazie di cuore ad Alessio Stefano per le fotografie del Monumento al Minatore di Casarano)
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