Questo ricordo lo trascriviamo in occasione del quarantacinquesimo anniversario della scoperta della Grotta dei Cervi. Al Museo Faggiano, a Lecce, si è tenuto come ogni anno un incontro fra studiosi e appassionati, che ha voluto dare il giusto omaggio alla Grotta e ai suoi scopritori. In questa sede prendiamo solo uno di loro cinque, colui che li rappresenta, ed ebbe peraltro il primo intuito, quella notte, che gli fece balenare il lampo di genio.
Si chiamava Severino Albertini. e quel 1 febbraio 1970 spalancò la strada per mostrare al mondo il luogo più sublime del Salento ancestrale. Riportiamo per intero un testo scritto da chi lo conobbe bene, un suo amico, Cesare Borgia, che meglio di ogni cosa può rappresentare un uomo e l’anima sua intera.
Non ho avuto il coraggio di venire al tuo funerale per non aggiungere dolore al dolore, sfortunato amico. Sei morto per la tua forza, questo ormai lo sanno anche le pietre, le stesse che hai calpestato per anni, alla ricerca del passato, dell’inviolato e della storia. Da una settimana ripasso il filo di quei meravigliosi giorni e della ansie costruttive che ci portavano a fare sveglia alle tre di notte per poter giungere sul posto del sogno e del mistero in tempo utile per sfruttare tutte le ore delle nostre sotterranee domeniche. Se è stato già scritto voglio riscriverlo, se non è stato scritto voglio che tutti sappiano chi eri, e perché hai lasciato il tuo Veneto per venire a portare luce in questa terra benedetta da Dio e oltraggiata dagli uomini. Quella tua insaziabile sete di conoscere e quel tuo irrefrenabile senso dell’errare che difficilmente mascheravi ed inchiodavi in quella tua strana bottega d’arte piena di polvere, sensazioni, ricordi ed energie inarrestabili. Il tuo destino era venire nel Salento e pagare con generosità il pedaggio regalandogli uno dei suoi tesori più nascosti e preziosi. Un’antologia storica di questa terra non sarà mai completa se nel capitolo del neolitico non trascriverà il tuo nome sotto quello della Grotta dei Cervi a Badisco. Ciascuno di noi ha un destino che si deve consumare, come un matrimonio indissolubile. Il tuo probabilmente si è consumato lì, su quella collinetta, anche se in verità non rimane anfratto, cunicolo, caverna o pozzo che tu non abbia esplorato in questo scrigno geografico pieno di sorprese e di magie. “Cesare, non puoi immaginare”, mi dicesti, “cosa si provi allorché con la torcia si sbuchi da un budello in una stanza sotterranea, e la luce accende nel buio una stalagmite colonnare, millenaria sentinella di un tempo senza fine. Non puoi sapere cosa si provi a ripassare là dove seimila anni prima passava un simile, di similitudine lontana incalcolabile”. Non dimenticherò la tua immagine, quando nei momenti difficili, quasi da solo tiravi fuori dal pozzo corde di venti metri, con settanta chili appesi in fondo.
Noi salentini del Duemila accampiamo grandi pretese di cultura ma arriviamo a distruggere testimonianze fondamentali della storia mondiale, a seppellire nella vergogna di incancellabili coltri di sporcizia glorie eccelse, tali che tutto il mondo, se solo sapesse, ci invidierebbe. Tu hai cessato di soffrire anche per questo, ora che vivi nella tua nuova dimensione. A noi rimane soffrire in silenzio e con rabbia. Un giorno trovammo il budello sotterraneo che scavavamo da mesi ostruito da un immenso macigno, e fummo costretti a tornare alla luce del sole. “Cerca qui intorno, Cesare”. Quel giorno scoprii cosa voleva dire la mia professoressa di liceo quando parlava di paleontologia e di altre strane cose senz’anima e senza realtà. Mi trasmettesti un altro amore, una malattia che ancora oggi non si placa, e credo non si placherà mai. Mi facesti conoscere i cimiteri degli squali e i tabulati rocciosi senza fine che riportano, come in un libro aperto, la storia geologica di un Salento sommerso, ricco di lagune calde e di atolli corallini pieni di vita. Quando questa terra ti sembrò più piccola di quanto non fosse all’inizio; quando l’esplorazione sottomarina non soddisfò più le tue smanie di cavaliere errante, decidesti di saltare il Mediterraneo per andare a vagare nei deserti d’Africa alla ricerca di radici ancora più antiche di quelle che trovasti negli insediamenti neolitici. Partisti e tornasti più volte per lanciare un ponte nuovo tra passato e presente. Per andare a cercare fra i Tuareg la risposta e la giustificazione al tuo Io errante, mai pago, allegro, pur sempre in contatto di pericolo con i terribili giochi che gli imponevi. Chi può pensare, oggi, che un tale vulcano si è spento. Mi sento smarrito e incredulo, e mi rammarico di aver diradato le visite alla tua bottega dei misteri, negli ultimi tempi. Se troverò il coraggio, quello che mi è mancato nel momento del tuo decesso, tornerò, e più spesso, nei tuoi luoghi, per stare in mezzo alle tue cose, e per rivivere i ricordi nelle parole e nel pianto di Rosanna. Il tuo ricordo non morirà mai, perché ormai è legato alla storia che, prima o poi, varcherà i confini di questa provincia inerte per trovare una più giusta collocazione in altri spazi e su altri livelli. Se tutto il mondo gloria la spelonchetta di Altamira, non è giusto che ignori la “cattedrale della preistoria” che tue i tuoi amici avete regalato generosamente a questa terra. Purtroppo in questo sacrilego ventesimo secolo noi salentini parliamo bene, ma ci comportiamo ancora spesso da pastori messapi, oltraggiosi e ignavi, tanto da ignorare il valore della scoperta, relegandola al limite del disfacimento. Se quelle pitture, che tracciano la storia di generazioni e generazioni, e dall’alba della Storia resisteranno alla stoltezza nostra, all’offesa dell’incuria, e non verranno sepolte dalle fondamenta di un residence turistico, prima o poi il tuo nome, Severino, emergerà pieno di luce dal mare piatto dell’insipienza dei falsi saccenti, degli ipocriti e degli invidiosi. Io te lo auguro perché possa vivere più sereno la tua eternità, e lo auguro a chi piange la tua scomparsa ed è altrettanto meritevole perché non ha mai fatto nulla per tarpare i tuoi slanci, e ti ha lasciato sempre libero di portare il tuo vulcanesimo vascolare nelle viscere della terra, nelle profondità del mare e negli infiniti silenzi dei deserti. Ti piangiamo, ma sono sicuro e mi conforta, che starai sconvolgendo anche il Paradiso con la tua frenesia di Cavaliere Errante, magari approfittando un poco del sorriso benevolo dell’Onnipotente. (Cesare Borgia).
Ed infine pubblichiamo anche uno scritto di Remo Mazzotta, che gli fu compagno nella Scoperta, prima anche lui stesso lo seguisse nell’ultimo viaggio.
Nell’etere vaganti ricordi evocanti d’intrepide avventure di semplici creature. Umili dilettanti, protesi in avanti, con esigua cultura indagando la natura. Dall’ignoto attratti, liberi da contratti, cercando con ligia antiche vestigia. Ricerche favolose, oltremodo faticose, come isolati dal mondo alle energie davamo fondo. IL diletto ci avvinceva, la passione ci sosteneva, con eterogenea mente esplorare ogni ambiente. Con pratica, senza teoria, studiare la geomorfologia, d’ogni terreno brado costatavamo il grado. L’ineffabile trascinatore, d’ogni opera il promotore, era il mitico Albertini, con antiquariati fini. Un vulcano la sua mente, eruttava idee continuamente, nuove zone da esplorare sia in terra che in mare. L’entusiasmo comunicativo trascinava ogni essere vivo, col sorriso suadente e radioso rendeva l’antico meraviglioso. Mente eccelsa, d’alto Fato, con missione, pro creato, la sua accesa fantasia rasentava ogni follia. L’ipogeo lo calamitava, la ricerca lo sfrenava, la scoperta lo esaltava, quasi sempre lo premiava. Lascio a tutti immaginare quanto avrebbe potuto fare, con grandi… possibilità, esprimendo le sue qualità. Palesi i suoi ritrovamenti, tutti degni di monumenti, chi l’afferma era suo vice, di lui orfano e infelice. Tutte le grotte da lui scoperte, agli speleologi sono aperte, tutti le vedranno gocciolare ma è per lui che stanno a lacrimare. Oggi inumato accanto ai genitori, riposa senza i dovuti onori, ma chi lo vuole ricordare a Porto Badisco deve andare. Come molti dal Nord giunti, col Salento si sono congiunti, questa terra ha tutti stregati, l’antica civiltà li ha stregati. Queste rime sono tutte baciate, dal profondo del cuore ispirate, e dai miei occhi anche bagnate; sperano essere ben interpretate.
Grazie a Luciano Faggiano, che mi ha fatto conoscere questi semplici testi, che con la stessa semplicità offro al mondo a memoria di chiunque ama la memoria.
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