Raggomitolato in un cantuccio remoto del Salento, che ha mantenuto inalterato il fascino antico, Morciano di Leuca come il bozzolo dipana il filo di seta della sua tela e al tepore dei raggi del sole si schiude come un bocciolo di una rosa per consegnare sulle ali di una farfalla i segreti della sua odorosa storia. Il primitivo casale, la cui etimologia del nome deriverebbe dal latino Murcius o più probabilmente da murex,
che significa roccia acuminata simile agli aculei della conchiglia chiamata murice, venne fondato nel IX secolo dai profughi sopravvissuti al massacro saraceno di Vereto messa a ferro e a fuoco. Prescelto come luogo di deposito di mercanzie e di vettovaglie si annidò intorno ad un poderoso fortilizio, destinato a sovrastare simbolicamente il campo dell’arme civica e a troneggiare sul borgo.
Grandioso e maestoso il maniero venne innalzato nella prima metà del XIV secolo da Gualtieri VI di Brienne con l’obiettivo di arginare l’espansionismo dilagante di Francesco della Ratta, conte di Caserta, che rivendicava quel feudo dopo aver contratto matrimonio con una discendente dei conti Aunay di Alessano. Dei quattro torrioni angolari continua a troneggiare fieramente soltanto uno di forma cilindrica, a tre piani, intersecato da beccatelli e munito di feritoie; altri due risultano innestati alle fortificazioni cinquecentesche, confondendosi con esse, e un altro subì la triste sorte di essere demolito nel 1507 dal barone Ruggero Sambiasi per sgomberare il campo al complesso monastico dei Carmelitani. Sulla scia dei castelli del tardo Medioevo la vita castellana ruotava intorno alla corte, dove erano dislocati i locali adibiti alla conduzione della vita quotidiana (magazzini, botteghe artigianali, stalle, cucine, forno, armeria, scuderie), mentre al piano nobile si diramavano le stanze da letto dei feudatari e degli ospiti oltre alle eleganti sale di rappresentanza.
L’olezzo dei secoli continua ad essere effuso dai gigli di Francia, scolpiti nella pietra sia per celebrare il blasone angioino sia per rimpiazzare i merli della cortina di coronamento. Il portale d’ingresso, protetto da una piombatoia, risulta sovrastato da una caditoia riccamente ornata e costellata di scudi araldici a suggello delle ingarbugliate successioni feudali culminate nel 1806 con l’eversione della feudalità. Nel 1848 il borgo fortificato venne acquistato da Giuseppe Valentini. Il ciclo si era aperto con Sinibaldo Sambiasi, che, investito del potere nel 1190 da Tancredi d’Altavilla, lo trasmise alla sua discendenza sino al XIII secolo. In età angioina subentrò Riccardus Murchano sostituito nel 1316 da Guiscardo Sangiorgio e nel 1335 da Gualtieri VI di Brienne. Nel 1468 Giacomo Antoglietta lo riconsegnò ai Sambiasi, ai quali succedettero le dinastie dei Capece, dei d’Enghien e dei Castromediano investiti dell’autorità di esercitare la giurisdizione criminale in prima istanza.
Nel lento scorrere della clessidra del tempo il casale rimase fondamentalmente a vocazione agricola, investendo sulla produzione olivicola così come testimoniato dall’alto numero di frantoi ipogei, che, nel IX secolo, sfruttando sapientemente l’architettura sotterranea dei granai messapici opportunamente scavati nella roccia e ulteriormente implementati e attrezzati, consentirono, a lume di lucerna e in virtù dell’energia sprigionata dai muli condannati a girare la macina, l’attività di molitura delle olive per ricavare l’olio considerato in tutti i tempi un elisir di lunga vita.
Morigerati e rigorosi i Morcianesi, che vivevano dei frutti della terra e del raccolto dei campi, erano soliti recarsi per invocare la grazia dell’abbondanza dei raccolti e per chiedere la remissione dei peccati nella chiesa del Carmine denominata anche del Rosario in quanto sede dell’omonima Confraternita. Costruita nel 1486, come recita un’epigrafe dedicatoria incisa sul lato settentrionale della struttura, venne rimaneggiata nel 1507 per volontà del barone Ruggero Sambiasi in concomitanza della costruzione del convento dei Carmelitani, che, nonostante l’eredità ingombrante, nel 1967 subì la triste sorte di essere atterrato in prospettiva di ridisegnare il volto urbanistico di un centro in crescita demografica e in espansione edilizia. Di stampo barocco l’edificio sacro, suddiviso in due ordini da una cornice, culminava con un monumentale frontone curvilineo.
Nel primo ordine, racchiuso tra lesene coronate da capitelli corinzi, si apriva un raffinato portale d’accesso coronato con un fregio raffigurante l’episodio dell’Annunciazione alla Beata Vergine Maria tra schiere angeliche. Nel secondo ordine un finestrone trilobato, posto in asse col portale, consentiva di irradiare la luce all’interno, che si presentava a navata unica, scandita da arcate sotto le quali vennero collocati pregevoli altari barocchi sormontati da tele seicentesche.
In seguito al dono di una reliquia di San Giovanni Elemosiniere da parte di un sacerdote veneziano ad un morcianese che aveva raggiunto per affari la città della laguna, dove erano state traslate da Alessandria d’Egitto le spoglie mortali del patriarca greco-ortodosso, la popolazione trasse il presagio non solo per intitolargli la chiesa matrice, ma anche per venerarlo come patrono al quale rivolgersi per scongiurare carestie e calamità naturali.
Edificato all’inizio del Cinquecento su un preesistente luogo di culto tardo medievale, trasformato in Ospedale e in centro di accoglienza in caso di scorrerie turche e saracene, l’edificio sacro venne concepito in stile romanico anche se risentì dell’irresistibile influsso barocco profondamente marcato nel 1576 dall’architetto Giovanni Maria Tarantino artefice del portale d’ingresso; dello stesso gusto artistico nel 1775 ne risentì anche il campanile. Per esaltare la quinta scenografica interna, suddivisa in tre navate scandite da due ali di colonne, si fece ricorso ad un arco trionfale, funzionale soprattutto alla demarcazione dell’area presbiterale dalla navata centrale. In un’atmosfera rarefatta sembra ancora riecheggiare il suono degli scalpelli adoperati per cesellare nella pietra al limite dell’artificio gli altari laterali impreziositi da tele seicentesche, colonne tortili, statue e decorazioni fitomorfe. Degni di nota gli affreschi del catino absidale raffiguranti la Vergine col Bambino e San Michele Arcangelo colto nell’atto di trafiggere il demonio, riportando così la vittoria del bene sul male.
Nel corso dei lavori di riqualificazione del centro storico nel piazzale antistante la parrocchiale vennero riportate alla luce settantadue sepolture medievali inquadrabili tra i secoli XII e XIV. Prive prevalentemente dei lastroni di copertura rientravano in un’unica sfera cimiteriale obliterata per motivi di tutela e conservazione dal basolato.
Attanagliati dalla paura per secoli gli abitanti dei casali medievali e rinascimentali rimasero alla mercé di predoni e pirati, che sbarcavano lungo le coste, depredando case e campagne, seminando il terrore tra la popolazione e riducendo sistematicamente in schiavitù. Per lenire lo sgomento, suscitato dal sacco di Otranto del 1480, e per garantire protezione ad un territorio sguarnito lungo il litorale entrò a pieno regime il sistema di torri di avvistamento pianificato dall’imperatore Carlo V con l’obiettivo di respingere gli assalti, che si profilavano dal mare. Sulla bassa scogliera della marina di Morciano di Leuca sorse così Torre Vado, la cui etimologia del nome deriverebbe dal latino vadum ossia guado o dallo spagnolo ovado termine indicante uno specchio d’acqua, dove i pesci convergevano per depositare le uova. La struttura fortificata a base circolare, adibita ab origine a torre cavallara della limitrofa Salve, venne coronata con una elegante merlatura. Costruita per sfidare i secoli in seguito al disarmo borbonico decretato nel 1846 venne convertita in stazione di controllo doganale, finendo dopo un valzer di cessioni in mano a privati.
Nell’entroterra un altro fortilizio, che incuteva un certo timore riverenziale, era rappresentato dal castello cinquecentesco dei barone Capece di Barbarano del Capo, frazione di Morciano di Leuca, di cui è rimasta superstite soltanto una torre a pianta quadrata a base scarpata di epoca tardo medievale, che, oltre a costituire un formidabile presidio di difesa, era funzionale all’avvistamento degli sbarchi turchi e saraceni lungo le coste. Il ruolo difensivo era incarnato dalla presenza inquietante di caditoie, feritoie e aperture per cannoniere, mentre venti beccatelli ne sdrammatizzavano l’aspetto cupo e pesante per infonderle una raffinata leggerezza architettonica distribuita lungo i diciotto metri di altezza ripartiti in tre piani. Al piano terra la vita scorreva lenta nel circuito che si sviluppava intorno alla corte, dove erano ricavati gli alloggi della servitù, i depositi, le scuderie, il maneggio, il mulino e un profumato giardino. Immancabile la stazione delle guardie e due pozzi per attingere l’acqua. Si accedeva al maniero attraverso un portale sormontato dal blasone della dinastia dei Capece sul quale si stagliava un minaccioso leone rampante accompagnato dall’iscrizione, scolpita nell’anno del Signore 1505, che recitava: Depose i potenti ed esaltò gli umili.
Tramontato il tempo della decadenza morale e spirituale del papato tornava a rinfocolarsi la devozione popolare infiammata dai sacerdoti fedeli ai principi della Chiesa primitiva oltraggiati da secoli di ricerca spasmodica di ricchezza, lusso, cariche, oboli e vendite di indulgenze. Sulle ali del vento riformistico si fece trasportare don Annibale Francesco Capece ossessionato da una fede austera. Nel 1685 il nobile prelato, nell’ottica di dare lustro e vanto al suo casato e nel fervore di un sentimento religioso rinnovato, intraprese i lavori per la realizzazione del monumentale complesso architettonico di Santa Maria di Leuca del Belvedere, denominata dal volgo Leuca Piccola, che ben presto si trasformò in pomo della discordia tra la diocesi di Ugento e di Alessano determinata a denunciare il plagio, considerato in qualche modo come uno scippo, dell’intitolazione del santuario, fino a chiamare in causa il Vaticano per dirimere la facinorosa questione.
Nel rigoroso ordine di un borgo solitario e schiaffeggiato dal vento durante l’inverno trovarono collocazione una chiesa mariana con struttura fortificata a capanna sul terrazzo e un ostello sullo sfondo di un’architettura ad archi di stampo neoclassico. Il ricordo del suo munifico benefattore venne affidato all’iscrizione ormai erosa: Don Annibale Capece or mi feconda / se un tempo sviscerar fece il mio seno; / entra qui, dunque, e ti trattenga almeno / l’ombra, il fresco, il vino e l’onda. Nella semplicità compositiva, scevra da orpelli e ricami, su una delle principali direttrici della viandanza religiosa sin da epoca medievale, fiorì un’oasi di preghiera, di accoglienza e di ristoro dei pellegrini in viaggio verso il santuario De Finibus Terrae di Leuca. I viandanti penitenti, che, più frequentemente nella bella stagione vi giungevano esausti ed affamati, potevano rifocillarsi con un tozzo di pane, attingere acqua fresca ai tre pozzi disponibili e riposare durante la notte sui giacigli dei sotterranei per poi riprendere il cammino penitenziale alle luci soffuse dell’alba. Nello spiazzo antistante sotto gli archi prima del viaggio potevano rifornirsi all’occorrenza dai mercanti, che esibivano svariate mercanzie sulle bancarelle stracolme sino allo spasimo. Non di rado qualcuno, preso dall’euforia di qualche boccale di vino tracannato senza misura, creava problemi di ordine pubblico, innescando risse furibonde, che non di rado infrangevano la quiete della sperduta zona rurale; così da un giorno all’altro sul muro di ingresso spuntò una lastra con il monito solenne delle 10 P da decodificare in questo modo: parole poco pensate portano pena perciò prima pensare poi parlare. Più che un suggerimento si trattava di un’esortazione da rispettare, per prevenire e debellare, almeno in loco, il deprecabile vizio di alzare senza misura il gomito. Nel 1709 quando vennero erette le rimesse, collocate tra la locanda e le arcate, comparve un’altra tabella che così recitava: Ferma il piè passegger / Non dar più passo che qui / Trovi comode rimesse / Don Annibal Capece, il qual ci eresse / Ci destinò pel forestier in spasso. In questo scorcio idilliaco i viaggiatori erano accolti e messi in guardia dall’addentrarsi nelle oscure selve limitrofe disseminate di vore, cavità carsiche profonde sino a trentacinque metri, pronte a trasformarsi in trappole letali. La chiesa, innestata ad un pronao classico, pur presentandosi all’interno ab origine disadorna serbava una testimonianza d’arte eccezionale, discernibile nella sinopia; sulla parete di fondo un affresco ricalcava il dipinto originale incastonato sull’altare del santuario di Leuca prima che venisse avviluppato dalle fiamme appiccate il 19 giugno del 1624 dai sacrileghi predoni algerini. Il 1711 segnò per il luogo di culto dei pellegrini l’apoteosi artistica dal punto di vista iconografico. Essa coincise con la rappresentazione sulle pareti di alcuni tra i santi più venerati dalla tradizione popolare (San Francesco di Paola, San Leonardo, San Gennaro, Santa Lucia, San Pasquale Baylon, Santa Marina, Santa Barbara, Sant’Oronzo, con gli attributi del loro martirio) e con gli immancabili evangelisti: Matteo, Marco, Luca e Giovanni distribuiti a corona del monogramma JHS (Jesus Hominum Salvator ossia Gesù Salvatore degli uomini) impresso sulla volta.
Tappa cruciale sulla via dei pellegrini di un Salento in movimento lento, Barbarano, il cui toponimo rievoca incursioni di barbari invasori, prosperò all’ombra del suo borgo sacro, posizionato quasi alla fine di un itinerario alchemico culminante ai piedi dell’effigie della Madonna di finis terrae a Leuca, ove un tempo si credeva terminasse il mondo delle terre emerse. E dopo il tormento del lungo cammino, spesso a piedi scalzi, sulle orme di cavalieri e visionari, peccatori e santi, sopraggiungeva l’estasi del rito purificatorio, preludio alla rinascita spirituale e alla rivendicazione di un posto in paradiso come premio per le tribolazioni patite nel corso del peregrinare di terra in terra.
testo di Lory Larva
fotografie di Alessandro Romano
MORCIANO DI LEUCA FOTOGALLERY
Alcuni particolari del Castello…
Particolare dell’ambiente del frantoio in cui si nota il taglio della roccia per la sua costruzione, che ha interessato alcuni silos molto più antichi, di cui resta l’impronta solo ai lati estremi, in alto ed in basso.
Palazzo Strafella, particolare dell’affresco posto nella grande sala voltata a botte.
La grande Torre Capece, posta nella frazione di Barbarano.
Chiesa del Carmine.
Chiesa matrice di San Giovanni Elemosiniere…
…e vari particolari del suo interno.
Particolare di un palazzo del centro storico, sulla cui facciata si legge l’epigrafe in latino che recita: cerca dentro di te, non fuori.
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