Otranto! Dall’alba dei tempi il sole che sorge avvolge con i suoi raggi il promontorio merlato più ad oriente d’Italia e i riverberi dorati sul mare illuminano d’immenso questa città, bagnata dal sangue dei suoi Santi Martiri, decapitati sul colle della Minerva. Nell’agosto del 1480 Otranto borgo fiorente, ma mal fortificato, martellato di giorno e di notte dalle bombarde del sultano ottomano Maometto II, cadde eroicamente in attesa degli aiuti promessi dal re di Napoli, Ferrante d’Aragona, e da suo figlio Alfonso, duca di Calabria. Attraverso una breccia si consumò l’eccidio del popolo inerme rifugiatosi nella cattedrale per pregare.
Nessuna pietà fu riservata dai Turchi a donne e a bambini né tanto meno all’anziano vescovo, Stefano Agricoli (secondo altre versioni Stefano Pendinelli), che venne sciabolato e decapitato, mentre il luogo sacro venne trasformato in stalla dai soldati del generale Gedik Ahmet Pascià impassibile di fronte a quel gesto sacrilego. Nel volgere di pochi giorni l’eccidio degli ottocento idruntini, canonizzati per aver reso la loro testimonianza di fede sino al martirio, cambiò il volto del borgo arroccato sul Canale.
In età antica i mercanti micenei e greci sfidarono l’ignoto per sbarcare lungo quel promontorio marcato da due insenature, una delle quali solcata dal fiume Idro, da cui secondo una versione deriverebbe l’etimologia del nome di una città protesa da sempre culturalmente ed economicamente tra Oriente e Occidente. Proprio nella valle dell’Idro trovarono rifugio secoli dopo comunità monastiche italo-greche scampate alla lotta iconoclastica, anche se l’insediamento fu frequentato a partire dall’età del Bronzo, come risulterebbe dal contesto archeologico scavato in prossimità della chiesa bizantina di S. Pietro e sulle pendici della collina, che domina l’insenatura orientale.
Tutto ruotava intorno al porto e ai costoni rocciosi, intersecati da escavazioni artificiali, che fungevano da depositi delle merci. Qui venivano conservati i contenitori da trasporto corinzi del VII sec. a.C., prima di essere veicolati nei centri dell’entroterra. Il carico e scarico di merci aveva trasformato Otranto in luogo privilegiato degli scambi “internazionali”, che si irradiavano verso tutta la Messapia meridionale. Significative acquisizioni per quanto riguarda la ricerca archeologica si sono avute sia dall’individuazione delle necropoli e delle fortificazioni a doppio circuito sia dal rinvenimento di tre cippi monolitici in pietra leccese, reimpiegati nelle mura, inquadrabili alla prima metà del III sec. a.C..
I segnacoli funerari, alti più di due metri e disposti ab origine all’interno di recinti sacri di pietra, alloggiavano su basi decorate con motivi geometrici ed erano sormontati da cornici intarsiate da raffinate modanature a foglie, palmette, meandri e fiori di loto. Sul lato principale recavano una serie di iscrizioni messapiche, probabilmente rubricate, riferibili a Dazet, Dazimas e Thaotor, accompagnati dai rispettivi gentilizi, Thaotorres, Dibinnes e Sarnahias. Oltre a troneggiare sulla scogliera questi monumentali ex voto, dedicati alle divinità dell’aristocrazia guerriera messapica, fungevano da vero e proprio instrumentum regni.
Il porto di Idruntum, strategico in età romana, venne riqualificato in età bizantina a partire dal VI fino all’XI sec. d.C.. Dopo il tramonto dell’esarcato di Ravenna, nel corso della guerra greco-gotica (536-554 d.C.), divenne presidio militare, deputato al controllo della stazione leader dell’Italia meridionale.
Oggi come ieri con il suo dedalo di viuzze lastricate, che dal centro storico si irradiano verso terrazze degradanti sul mare, Otranto rimane una quinta scenografica in grado di attrarre e catapultare turisti e visitatori in un’altra dimensione fuori dal tempo e dallo spazio. Anche se i proiettili delle bombarde ottomane, utilizzate come paracarri dei portoni dei palazzi gentilizi non sibilano più, par risuonare, invece, il mesto lamento degli innocenti catturati, oltraggiati e venduti come schiavi dai Turchi, che il 10 settembre 1481 non esitarono a riconsegnare la città al duca Alfonso sopraggiunto alla testa delle milizie cristiane. Mai più Otranto sarebbe rimasta sguarnita e così, sotto il regno di Ferrante d’Aragona, tra il 1485 e il 1498, venne innalzato un poderoso castello, utilizzando sostruzioni di un fortilizio di età federiciana. La presenza di questa struttura, inserita nel circuito dei castelli svevi, è testimoniata dallo Statutum de reparatione castrorum (1241-1246) nel quale erano riportate le disposizioni federiciane relative alla manutenzione da parte della comunità civile ed ecclesiastica del castrum Ydronti. Il documento così recitava: <<in primis castrum Ydronti reparari potest per nomine eiusdem civitatis, ecclesie ydrontine et aliarum ecclesiarum eiusdem terre habencium feuda ibidem et per barones eiusdem terre et per homines et ecclesias habentes feuda honore castri>>. Ulteriore testimonianza è desumibile dal mandato di Carlo I d’Angiò, datato 4 maggio 1284, relativo alla nomina di Guilielmus Quatragintasolidi quale provveditore dei castelli di Terra di Bari e di Terra d’Otranto. Il maniero, progettato dall’ingegnere del duca di Urbino, Ciro Ciri (detto Ciro di Castel Durante), che si avvalse della consulenza di Francesco di Giorgio Martini, uno dei più quotati esperti di architettura militare dell’epoca, ricalcò una pianta pentagonale irregolare.
Durante la dominazione spagnola venne implementato con bastioni esterni, e, per scongiurare l’attacco dei nemici dal mare, vennero rafforzate sia le tre torri cilindriche (Torre Alfonsina, Torre Ippolita, Torre Duchesca) sia il bastione a lancia denominato “Punta di Diamante”, innalzato nel 1578 dai viceré spagnoli e recante a imperitura memoria le armi araldiche di don Pedro da Toledo e Antonio de Mendoza. Sul portale d’ingresso venne scolpito lo stemma di Carlo V d’Asburgo, e, nel tentativo di trasformarlo in fortezza inespugnabile, venne scavato un profondo fossato colmato qualche secolo dopo per consentire l’accesso alla cittadella pervasa da un’atmosfera multietnica da kasbah.
Dai baluardi sul mare, dove un tempo si rimaneva abbagliati dal luccichio di armi e corazze dei crociati che si imbarcavano alla volta del Santo Sepolcro, quando non c’è foschia si scorge il profilo delle vette dell’Albania, a dimostrazione della vicinanza geografica tra le due sponde adriatiche. A dominare la scena di un centro, sin dall’antichità crocevia di popoli, la splendida cattedrale di epoca normanna, edificata su un luogo di culto paleocristiano ricadente nell’area di una domus romana, che, a sua volta, aveva occupato quella di un villaggio messapico.
Per la progettazione architettonica del tempio idruntino, iniziato a costruire nel 1068 dal vescovo normanno Guglielmo e consacrato al culto il 1° agosto 1088 durante il pontificato di Urbano II si ricorse all’intreccio tra i processi compositivi e gli stilemi espressivi bizantini, romanici e gotici. La pianta ricalcava quella basilicale scandita da tre navate intervallate da due file di colonne sormontate da capitelli risalenti alcuni all’XI sec., altri, forse, recuperati da un tempio pagano. Sull’austera facciata venne intagliato nella pietra un imperioso portale barocco commissionato ad Ambrogio Martinelli nel 1764 dal vescovo Adarzo de Santander, a cui fece eco uno splendido rosone romanico intervallato da sedici elementi in pietra leccese con ornati gotici. Nel 1698 venne decorato il soffitto della navata centrale con cassettoni in legno dorato, mentre il paliotto in argento dell’altare maggiore fu realizzato nel Settecento da orefici napoletani. Un fiume di turisti scorre ininterrottamente lungo la navata destra, dove sono collocate le sette teche che custodiscono le reliquie degli ottocento martiri. Dietro l’altare è adagiato, invece, il masso utilizzato per la loro decapitazione.
Corre un brivido lungo la schiena, quando si calpesta il MOSAICO eseguito, su commissione del presule Gionata, tra il 1163 e il 1165, dal monaco del monastero di Casole, Pantaleone, così come si evince dall’iscrizione dedicatoria. Oltre ad essere il tappeto musivo più esteso d’Europa esso racchiude tra le sue tessere un messaggio arcano, che sottintende all’eterna lotta tra il bene e il male. Dall’albero della vita, sovraccarico di figure allegoriche, si dipana il senso del divino ai tempi del Medioevo attraverso la narrazione di episodi dell’Antico Testamento innestati a quelli della mitologia, della storia, del ciclo bretone e dei vangeli apocrifi. In tutte le stagioni alta la percentuale di visitatori anche nella cripta “a sala o a oratorio” sottostante alla cattedrale. Considerata una delle più antiche se non la più antica di Puglia si connota per essere suddivisa in quarantotto campate quadrate con volte a crociera incardinate su quarantadue colonne marmoree culminanti con capitelli diversi da un punto di vista stilistico ed iconografico rivenienti in prevalenza da materiale di spoglio. Interpretata da qualche studioso come tribunale romano, sulla base degli scavi archeologici che hanno restituito cinque mosaici, venne trasformata in cripta nell’XI sec.
Prima cattedrale della Otranto bizantina elevata a sede metropolitana dal patriarca di Costantinopoli nel 967/968 fu S. Pietro che venne pianificata in prospettiva del piano di rinnovamento operato da Basilio I nel Salento, nel momento della cosiddetta seconda colonizzazione greca. In quest’isola bizantina recisa da una Puglia ormai sotto il dominio dei Longobardi si volle così ricordare il leggendario passaggio del principe degli apostoli diretto a Roma, dove sarebbe stato martirizzato. Il tempio venne progettato a croce greca con tre navate sorrette al centro da quattro colonne su cui venne inglobata una cupola rievocante modelli dell’architettura orientale, mentre i bracci laterali vennero coperti da volti a botte. Lungo le pareti e la cupola tra il IX-X sec. vennero affrescate scene dell’Antico Testamento, a cui fecero da contraltare alla fine del XIII sec. brani pittorici del Nuovo Testamento.
Dopo aver ammirato il mastodontico castello e i principali edifici sacri inizia il viaggio alla scoperta della cittadella lastricata, animata da botteghe artigianali, negozi tradizionali e palazzi nobiliari, delimitati da silenziosi esemplari di bombarde turche e da monumenti epigrafici romani, che trasudano storie dimenticate di uomini venuti dal passato anche se il loro racconto è soverchiato dal frastuono del popolo della notte che si proietta verso il futuro.
Scivolando lungo la litoranea meridionale troneggia a picco sul mare la scogliera della Palascìa, ovvero Capo d’Otranto, l’os vadi della tradizione antica, considerato uno dei più rischiosi del Mediterraneo per gli improvvisi cambiamenti delle correnti. Ai piedi di uno dei cinque fari del Mar Mediterraneo, sotto tutela della Commissione Europea, la notte di S. Silvestro si rinnova il rito propiziatorio dell’attesa del nuovo anno con lo sguardo rivolto verso il carro del sole, salutato dall’aurora pronta a svelare le meraviglie di un litorale spettacolare. Tra Torre S. Emiliano e Torre Minervino una tappa obbligatoria è rappresentata dall’insenatura di Porto Badisco. Secondo una leggenda qui approdò Enea con gli esuli troiani in fuga da Troia. Il mare incontaminato e la scogliera di una bellezza stupefacente calamitarono l’interesse non solo dei progenitori di Roma, ma ancor prima delle genti preistoriche che, provenendo dal bacino del Mediterraneo, sbarcarono nella rada protetta, trovando rifugio nelle grotte e nelle antegrotte disseminate lungo la costa.
A poca distanza, nel ventre della terra, a circa 20-26 m. di profondità, si estende ancora oggi uno di questi ripari naturali denominato GROTTA DEI CERVI per la prevalenza di raffigurazioni di caccia al cervo. Sin dalla sua scoperta, avvenuta il 1° febbraio 1970, la grotta-santuario, frequentata dal Paleolitico Superiore all’età dei Metalli, ispirò le suggestioni di un lontano passato racchiuso nell’oscura pratica di riti propiziatori e sciamanici. L’austera sacralità di un luogo pagano e la profonda spiritualità delle popolazioni, che lo frequentarono, aleggia ancora oggi sulle pareti e la volta del santuario divenuto famoso per il complesso d’arte pittorica parietale post-paleolitica più importante d’Europa. Sul libro di pietra della Cappella Sistina della Preistoria, chiusa al pubblico per non alterare il delicato microclima, vennero disegnati grovigli impregnati di simbolismo schematico e astrattivo nel solco delle pratiche cultuali post-paleolitiche scaturite dalla trasformazione radicale delle civiltà venatorie in quelle agricolo-pastorali. Ma non mancavano le scene popolate da animali grazie ai quali l’uomo riusciva a garantire la sopravvivenza a sé stesso e al proprio clan. Con schematiche composizioni a carattere narrativo si rievocava la magia della caccia, utilizzando una serie di colori tra cui il rosso, l’ocra e il nero ricavati da materiali naturali disponibili sul posto, come, ad esempio, il terreno ricco di minerali ferrosi e il guano dei pipistrelli. Nella penombra rischiarata da fiaccole, tra ermetici simboli spiraliformi, cembaliformi, serpentiformi, cruciformi e arabescati, si rincorrevano arcieri e cervi, che, tentavano di sfuggire alla vista di impronte di mani impresse sulle volte come riti di iniziazione. Nella scenografia rifulgevano in tutta la loro bellezza anche emblemi stellari, solari e catene di losanghe, che si dipanavano nel labirinto di immagini, segni e simboli, per molti aspetti, avvolti ancora nel mistero.
Ad una costa sorvegliata da mute sentinelle di pietra oltraggiate dal tempo e presidiata da greggi di pecore corrisponde un entroterra costellato di masserie come quella che sorse sui ruderi dell’abbazia di San Nicola di Casole edificata da Boemondo I d’Antiochia intorno al 1098. Quando i Normanni ascesero al potere, abbracciando il rito latino, cercarono di instaurare un rapporto pacifico con il clero di rito greco, divenendo mecenati di questo luogo di incontro tra cultura greca e cultura latina. Nello scriptorium del monastero i monaci copiavano codici greci e latini, che venivano custoditi gelosamente nella loro biblioteca divenuta polo privilegiato di intercultura. Il cardinale Giovanni Bessarione non si fece scrupolo a razziare libri e manoscritti rari, ma per ironia della sorte li preservò dal saccheggio e dal rogo dei Turchi, che nel 1480, durante il sacco di Otranto, condannò alla rovina un luminoso faro di luce e civiltà del monachesimo italo-greco in Puglia, dove vi era attivo persino un cenacolo di poeti. Dell’antica abbazia, trasformata secoli dopo in masseria, si conservano solo lacerti di strutture architettoniche ed un sarcofago adattato a vera di un pozzo. Un pozzo di storia racchiusa tra terra e mare sulla scia di un ponte ideale sospeso per secoli tra Oriente ed Occidente.
testo di Lory Larva
foto di Alessandro Romano
OTRANTO FOTOGALLERY
Otranto. Ruderi del Monastero San Nicola di Casole
Masseria Cippano, il complesso masserizio fortificato più a oriente d’Italia.
Chiudo questa galleria fotografica con alcuni scatti dell’amico Raffaele Santo, che illustrano magnificamente la bellezza della costa appena a nord di Otranto, dove gli elementi naturali hanno dato vita ad uno scenario degno di questa splendida città!
(che ringrazia la cara Maria Giovanna, proprietaria dell’Agriturismo Torre Pinta, ad Otranto, per l’amicizia ed il permesso accordatoci per gli scatti fotografici; Pino Salamina, per averci passato le sue foto, con l’unico scopo di divulgare per il mondo l’importanza di questa grotta unica al mondo).
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Otranto: fra Oriente e Occidente
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