Alessandro Romano, leccese classe 1975, è alla sua prima esperienza letteraria col romanzo intitolato “L’alba del difensore degli uomini”. Il titolo non è del tutto rivelatore del tema narrato ma l’immagine della copertina – un fotomontaggio che mostra una scogliera con sant’Antonio da Padova genuflesso spalle al mare – palesa un richiamo
alla sfera del sacro e del miracolo. L’autore, invero, attraverso i fatti e i personaggi del suo racconto ha condensato, lavorando su storie umane inizialmente parallele ma infine convergenti in una, sia la sua conoscenza dei temi storici e di cronache attinenti al Salento e sia una personale maturazione interiore che l’ha portato ad avere una visione cristiano-cattolica del suo vivere quotidiano. Lo sforzo compiuto da Alessandro Romano per consegnare al lettore un lavoro dignitoso, non è tanto evidente nella cifra stilistica della sua scrittura – alquanto semplice e delicata – bensì nella sua profonda ricerca di un’interiorità che fa spostare i contenuti delle storie narrate nell’ambito del sublime e della sincerità ma, soprattutto, a quello del compromesso nell’atavica concorrenza tra l’essere e l’apparire. È proprio questa la chiave di lettura che porta a scoprire le parti più intime dei due personaggi principali: Alex, un cameraman di Lecce con la passione per la scrittura, e Lindita, una giovane profuga albanese sbarcata sulle coste del Salento. Il romanzo, intrecciando le loro storie, diventa anche l’occasione per parlare dell’Amore Assoluto, della sua ricerca e delle sue forme, e l’autore scrive di esso inventando tre personaggi – Alex, Narratore e IO – formalmente diversi ma che, nonostante i continui cambi di scena nella narrazione, in realtà diventano l’espressione interiore, ma anche biografica, di Romano stesso. Lindita, da parte sua, incarna la cronaca degli anni in cui, caduto il comunismo, l’Albania vede massicci esodi di uomini e donne verso l’Italia: luogo di libertà e diritti, di ricchezza e felicità. È dalla somma delle vicissitudini dei due protagonisti che l’autore trova un ennesimo spazio per allargare la narrazione e scrivere momenti di storia realmente accaduti e fatti di costume o di folklore che ancora si raccontano dagli abitanti dei piccoli centri del Salento. Nel racconto, pertanto, si apre un nuovo piano narrativo e cioè quello in cui il protagonista vero è la microstoria salentina. Non rari, tuttavia, sono anche i casi di racconti, specialmente quelli tramandati oralmente, nei quali l’autore trova l’opportunità di fantasticare arricchendoli con l’immaginazione che a lui non difetta come, ad esempio, il caso della cicatrice di Rodolfo Valentino visibile in una sua foto d’epoca. Il romanzo di Romano, pertanto, si differenzia nei vari capitoli esprimendo ora una forte tensione psicologica ora una sorta di denuncia sociale, ma anche intonando un canto all’ambiente e al costume salentino e perciò esso sfugge da ogni tentativo di classificazione tipologica. Leggere questo lavoro, dunque, significa anche penetrare nei meandri meno noti del Salento attraverso uno scrittore dall’animo nobile e legato, come non mai, alla sua Terra.
Vincenzo D’Aurelio (testo tratto dal sito web Cultura Salentina).
Sei andato di corsa alla ricerca di questo libro, dopo averlo visto nascere sulla seguitissima bacheca facebook dell’autore che è Alessandro Romano. Non vedevi l’ora di leggere l’opera letteraria di un amico che conosci da oltre un lustro, e certamente da molto prima dell’iscrizione tua e sua al popolare social network. Fu tuo ospite a Noha, e più volte, insieme alla stupenda Giuliana Coppola. Girovaghi per il paese (tu come guida, Giuliana come cronista e Alex come cameraman – sì, l’ufficio ce l’ha praticamente in spalla) andaste insieme a zonzo a scoprir meraviglie. E ne rinveniste più d’una. Ma ora è d’uopo lasciar perdere questo filone, ché rischieresti di non finirla più e magari di uscire fuori dal seminato. Dunque. Hai dovuto gironzolare non poco per librerie, dapprima alla Dante Alighieri di Casarano, successivamente alla Feltrinelli e poi alla Liberrima di Lecce, e finalmente alla Palmieri della stessa città dove con letizia, dopo le comunque piacevoli peripezie bibliofile, hai potuto recuperare una copia de “L’alba del difensore degli uomini”: locuzione invero un po’ lunga e quasi ermetica che rievoca vagamente anche quelle che adopera la Lina Wertmüller per intitolare i suoi film. Ma alla fine della storia, come per “Il nome della rosa”, coglierai eccome il senso del tutto. Le 270 pagine del volume alessandrino non si leggono, si divorano, e tu hai impiegato quattro giorni scarsi per arrivare al lieto fine (che poi è un lieto inizio), ma sol perché il tempo libero che ti rimane al termine della sempre troppo lunga giornata lavorativa sei costretto a dividerlo tra mille incombenze: come per esempio quella di provare a difendere la tua terra dalle novelle scorribande del capitalismo di rapina, o quella di scrivere cose per i tuoi venticinque lettori (il che ti capita quando ti prudono le mani. Praticamente sempre). All’inizio ti sembra un libro che ha per tema due rette parallele destinate a incontrarsi all’infinito, cioè mai; ovvero una storia sulla solitudine di due numeri primi, vale a dire quelli divisibili per se stessi o tutt’al più per uno. Pagina dopo pagina, oltre ad accorgerti che non si tratta di una storia inventata ma della vita effettivamente vissuta dai protagonisti, capisci invece che di fatto non sei di fronte a due rette parallele, ma a due retti (nel senso di giusti), Alex e Lindita, destinati a incrociarsi e a legarsi per l’eternità (benché arguisci subito quanto fossero ben incastrati, i tipi, ancor prima di conoscersi), e ti convinci vieppiù che non era solitudine quella, ma dolce attesa di una definitiva indivisibilità di un’anima in due corpi. Ti ha fatto viaggiare, questo libro, nel senso dei meridiani, ora di qua e ora al di là dell’Adriatico, tra alba e tramonto, tra le sponde del Salento e quelle della bella Albania (che tempo fa visitasti anche tu raggiungendola in barca a vela). Leggi queste pagine con gli occhi e con i polpastrelli, e senti che molte cose ti appartengono per chi sa quale strampalato marchingegno: forse perché anche tu hai trascorso la tua adolescenza a dare una mano agli altri a scuola, e poi erano gli altri, mannaggia, ad aver successo con le ragazze mozzafiato (le quali ti adoravano, certo, ma sempre come “amico”); forse perché c’è sempre in qualche modo Sant’Antonio di mezzo, e tu per anni, da imberbe chierichetto, hai servito la messa della Tredicina nella cappella del tuo paese dedicata al taumaturgo di Padova; forse perché, come Alex, sei anche tu per la decrescita felice, e hai ormai capito che il ricco non è chi ha tanti soldi ma chi non ha bisogno di nulla; o forse perché sentivi che prima o poi l’autore ne avrebbe parlato, e, infatti, a un certo punto arrivano anche loro, le Casiceddhre di Noha (delle quali anche tu, a suo tempo, avevi avuto modo di discettare). Forse tutto questo insieme. O forse soprattutto perché senti che Alex sei un po’ anche tu, che, come lui, credi che l’amore più vero, forte e intramontabile sia quello che indugia e che si fa attendere. Ma pur sempre entro certi limiti. Perché, come diceva quel tale, non ha senso che due rette parallele si incontrino dopo l’infinito, quando ormai non gliene frega più niente. (P.S. Di recente ho beccato mio padre [ormai lo conoscete già: 94 anni, di poche parole, pensionato con 542 euro al mese – che per lui sono sempre troppi -, contadino, già internato dal ’43 al ’45 in un campo di concentramento a Berlino, accanito lettore di libri, ndr.] che ha iniziato a rileggere per la seconda volta il libro di Alex. “Scusa – gli ho detto – ma questo libro non l’avevi già letto tempo fa?”. “Sì, – mi fa – ma una bella canzone, la senti una volta e poi basta? E un quadro che ti piace o, che so io, un tramonto in campagna, ti accontenti di vederli per una volta soltanto? E un piatto di piselli alla ‘pignata’ accompagnato dai peperoni fritti, che fai? Non chiedi a tua moglie di cucinarlo ancora?”. Punto). Antonio Mellone.
(Qui: il viaggio presentazione del romanzo a Verona)
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