“Il 20 febbraio 1743 gli abitanti di Melendugno videro tramontare il sole dietro le pietrose campagne delle Serre mentre un’aria color ruggine incombeva sull’abitato. I contadini osservarono a lungo quel cielo malato, carico di tinte infuocate, e subito decisero di far ritorno dai campi sui loro carretti cigolanti lungo i sentieri.
Le case assicuravano l’intimità della famiglia. mentre fuori una rabbiosa tramontana frustava le chiome degli ulivi, confuse con il livido del cielo. Verso mezzanotte, di colpo, fu tutto un silenzio: si calmò il vento come per un ordine superiore; le oche nelle corti starnazzavano impaurite e le cagne atterrite afferrarono stretti tra le zampe i cuccioli; le bestie nelle stalle scalpitavano, cercando di liberarsi dalle mangiatoie; i gatti miagolando, scappavano sbandati per le strade deserte. All’improvviso un violento tremolio scosse la terra. Si staccavano calcinacci dai soffitti, gli ammezzati di legno scricchiolavano, ed i bimbi strappati dal sonno scoppiavano in pianti a dirotto, cercando le braccia delle madri. Gli uomini più solerti, agguantata la famiglia, cercavano rifugio nei campi, ma un’altra terribile scossa li fece sdraiare bocconi per terra e chiedere aiuto, rivolti al cielo. Una terza volta un fracasso infernale sembrava volesse inghiottire Melendugno nell’abisso.
Qualcuno allora vide una pia donna che, lasciandosi dietro, lungo la strada, briciole di pane benedetto, si dirigeva verso la chiesa per pregare San Niceta, il protettore. Improvvisamente si udì un rumore di zoccoli, quasi un galoppo, sempre più vicino, sulle tracce lasciate dalla donna con le briciole di pane. Nei pressi del sagrato, al buio, si distinse il profilo di un cavaliere che, tirando forte il morso al cavallo scalpitante, sguainò la spada e la posò sul capo della donna, che pregava e piangeva.
Subito dopo, spronato energicamente il destriero, il cavaliere si allontanò nella notte. La buona donna, baciando il cielo e la terra, levò canti di lode al santo patrono Niceta, che aveva salvato il paese dal terremoto. Poi andò a trovare i compaesani fuggiti nelle campagne per narrare loro l’accaduto. Quasi nessuno volle prestare fede alle parole della donna. Si narra però che la poveretta visse per altri tre anni, duranti i quali gli abitanti di Melendugno, puntualmente a mezzanotte tra il 19 e il 20 di febbraio, avrebbero udito il galoppo di un cavallo per le vie del paese. Da quel tempo la gente di Melendugno festeggia San Niceta del Terremoto, in segno di riconoscenza al Santo Protettore per il miracolo con cui aveva salvato il paese dalla catastrofe”.
Questo breve e intenso racconto di Antonio Nahi (tratto da “Il libro degli altri, storie e leggende del Salento magico e misterioso”, Zane Editrice 2010) pregevole narratore melendugnese, trasmette perfettamente l’atmosfera ed il senso di tragedia incombente che attraversò Melendugno, ma in realtà il Salento intero. Fu infatti un evento assolutamente epocale per una terra che ancora oggi è nelle classiche nazionali come quella a più basso rischio sismico.
Accadde invece che con epicentro nel Canale d’Otranto si scatenò una scossa del IX grado della Scala Mercalli e che partendo già da Bari ebbe effetti verso sud in tutto il Salento e parte della Grecia. La violenza dell’evento fu tale che il numero dei morti fu in paragone miracolosamente basso, rispetto a quello che sarebbe potuto accadere. Non si hanno dati certi, si parla di un numero dai 180 ai 350 decessi in tutta la Puglia. Tanto che in molte città si gridò al miracolo. A Nardò si festeggia ancora oggi il Santo Patrono, San Gregorio Armeno, proprio il 20 febbraio.
Il campanile della chiesa di San Domenico ricorda con un epigrafe il miracolo avvenuto, e la sua ricostruzione, avvenuta due anni dopo…
…mentre proprio nel centro della facciata della chiesa di Santa Chiara, si notano le crepe dovute proprio al sisma (foto sotto).
Ancora oggi gli anziani del paese raccontano che durante quelle scosse, le statue del Patrono e quella della Madonna (posta sulla guglia, e situate ai lati opposti della piazza), quasi si toccavano!
Nardò fu la città che pagò col numero più alto di vittime, in tutto il Salento: 150 morti, sul totale di 180.
Ma anche altre città pagarono grandi distruzioni, prima fra tutte Francavilla Fontana. Questa è una testimonianza dell’epoca, che viene proprio dai momenti in cui si festeggiava in paese il Carnevale… “in sulle ventritè ore e tre quarti si avvertì un memorabile terremoto. La scossa fu così violenta che le genti dal muoversi delle pareti che barcollavano, tentennavano e sfasciavansi, fuggivano senza saper dove. Fu un orribile spettacolo. Le maschere in giro pel carnevale, prese da superstizioso terrore, si spogliavano delle vesti, scappavano a torme, si nascondevano. La principessa Eleonora Borghese, corse rischio d’essere schiacciata sotto l’arco della porta Roccella. Le case dell’alloggiamento quasi si toccarono con la vicina Chiesa Madrice. In questa molti corsero per riparare, ma a mezzo del cammino incontravano i volti pallidi e paurosi dei preti, i quali fuggivano vedendola screpolata e quasi caduta. Voci di frati preganti, pianti, grida e rumori vaghi e misteriosi e crollamenti di case, scoppiavano nell’aria già abbuiata. Il mattino appresso la scena si rivelò in tutto il suo orrore. Molte case e palazzi non erano più abitabili. Della Chiesa Colleggiata, il cappellone verso le monache era presso che rovinato; niente era rimasto del coro e dell’altare maggiore; in tutta c’erano tali screpolature che parve impossibile qualsiasi riparazione”.
Anche a Lecce la mancanza di seri danni parve miracoloso, e l’evento è riportato in una tela custodita all’interno della Basilica di Santa Croce, dove manco a dirlo si inneggia al Patrono della città, e alla protezione accordata: Sant’Oronzo. Curiosa l’epigrafe, che sottolinea nel dialetto cittadino dell’epoca, che nonostante la città tremasse, non cadde un solo mattone.
Sotto, vediamo un’altra tela, custodita nella sagrestia della chiesa di Santa Irene, sempre a Lecce, commissionata da un certo Domenico Mondatore, come si legge nell’iscrizione posta in basso alla classica immagine di Sant’Oronzo che sovrasta la città, e che recita così: “In memoria del gran miracolo che il gran Santo protettore si degnò farci l’anno 1743 liberandoci dal gran terremoto. Per il suo oratorio delle anime del Purgatorio A.D. 1780”. Bella è anche la “visione” della città settecentesca.
Lo storico ottocentesco Cosimo De Giorgi racconta di un graffito che lui ritrovò sulla chiesa del suo paese, a Lizzanello, oggi purtroppo illeggibile, ma che lui trascrisse sui suoi “Bozzetti di viaggio”, e recitava così: “A XX febraro fece terremoto magno a l’anno 1743”.
Sul muro della chiesa matrice di Sternatia, invece, l’epigrafe di questo tremendo ricordo è rimasta quasi intatta (sotto), anche se per leggerla interamente è più semplice studiarla dal vivo (si legge bene la dicitura “terremoto terribile”): chi la lasciò, ebbe premura di incidere anche una sorta di “cornice” a questo breve messaggio da quei giorni di paura.
A Brindisi crollò quasi interamente la cattedrale romanica, ed oggi un’epigrafe ricorda l’evento.
Anche a Calimera c’è un’iscrizione, all’interno della chiesa dell’Immacolata, che ricorda la distruzione e poi la ricostruzione dopo il cataclisma.
A Soleto crollò l’ultimo ordine della celebre guglia orsiniana, che fu poi ricostruito in maniera molto diversa dall’originale. All’interno della chiesa, proprio dietro l’altare maggiore, si conserva un prezioso supporto in legno, con incisa la data 1604, che mostra la chiesa come era all’epoca, con il cupolino cuspidato originario, nel pieno stile gotico che slanciava verso l’alto i monumenti (foto sotto).
Fra le cittadine che subirono i danni maggiori oltre Nardò e Francavilla, citiamo anche Lizzano (dove il terremoto provocò l’inclinazione del Castello e il crollo di una buona parte del centro storico), Maruggio (distruzione del rosone della chiesa madre) Sava (lesioni del Santuario della Madonna di Pasano), Leverano (ristrutturazione della chiesa matrice nel 1747), Salice Salentino (ricostruzione della chiesa matrice), Oria (Cattedrale ricostruita nel 1750) e Maglie (ricostruzione della chiesa matrice). A Mesagne, ogni anno in occasione della ricorrenza dell’evento, parte una processione devozionale dalla chiesa della Madonna del Carmine.
Condivido anche la foto sopra (dell’amico Ioannes Del Sorriso), che mostra la statua della Madonna del Terremoto (siamo a Manduria): fu commissionata all’indomani del terremoto dalla confraternita di San Leonardo e San Sebastiano. I cittadini, per lo scampato pericolo, fecero erigere inoltre, nei pressi del largo Osanna (ora giardino pubblico) una colonna con la statua in pietra dell’Immacolata, e dipingere sulla porta pubblica detta porticella, una affresco in cui era raffigurato il campanile distrutto della chiesa matrice, e tra le macerie la mano protettrice della Vergine Immacolata.
Sopra, uno scorcio di Francavilla Fontana, da dove giungono altri ricordi documentati: “Restò memorabile terremoto che si sentì a 20 febbraio del 1743 in sulle ventitrè ore e tre quarti. La scossa fu così violenta che le genti atterrite dal muoversi delle pareti che barcollavano, tentennavano e sfasciavansi, fuggivano senza saper dove[…] La Principessa Borghese corse rischio d’essere schiacciata sotto l’arco di porta Roccella […] Il mattino appresso la scena si rivelò in tutto il suo orrore” (Storia di Francavilla Fontana, di Pietro Palumbo).
Qui siamo invece nella chiesa matrice di Erchie, dove la fatidica data 1743 si trova associata a questa statua di santa Irene, un tempo patrona di Lecce, che reca appunto la città in braccio in segno protettivo…
…quello che è inusuale è l’espressione profondamente sgomenta della santa, la cui statua mi dicono in paese fu murata all’interno del perimetro della chiesa e solo recentemente asportata. Forse si è persa la memoria, in paese, del motivo per cui fu posta all’interno del muro della chiesa? Qui, la ricerca devo ancora approfondirla.
L’anno 1743 è rimasto impresso anche in qualche altro luogo, non sappiamo se associato all’evento, ma certo lo si può supporre. Qui sopra siamo nel chiostro dell’ex convento di Sogliano Cavour, oggi sede comunale, e sull’accesso che introduce alla chiesa si vede la data incisa ai due margini superiori del portale.
Sopra siamo a Castiglione d’Otranto, e anche qui è rimasta un’architrave che curiosamente reca incisa proprio la data di quell’anno: 1743. Non sappiamo se si riferisca a quell’avvenimento. Ma questo ricordo epocale è rimasto praticamente in tutte le città salentine. Una catastrofe che secondo alcuni studiosi scagliò sulla costa otrantina uno tsunami, i cui resti sono i giganteschi massi provenienti dai fondali che si trovano sulla scogliera sotto la Torre di Sant’Emiliano…
L’incredibile onda arrivò a due riprese, ed infatti a ben guardare, vi sono due linee di massi disposte parallele, a circa un centinaio di metri dalla linea costiera… massi di parecchie tonnellate ciascuno…
L’unica fonte storica che porta con sé le tracce di questo tsunami si trova a Brindisi, pubblicata anche dal blog di Brundarte: “A dì 20 febbraro 1743, giorno di mercoledì, all’ore ventitré e tre quarti fu in questa città un terribilissimo tremoto, che in tre repliche durò minuti due, e fu così orribilissimo che rovinò tutte l’abitazioni, palazzi, molti caduti, e molti non atti ad esser abitati, ma tutte le case generalmente danneggiate, e risentite molto. Il domo non più atto a farsino i sacrifici e le funzioni divine, tanto che noi capitolari officiamo a Santa Chiara, per poi determinare dove dobbiamo rimeterci; li Riformati, patito il lor dormitorio, dormono in cucina, e refettorio; i Cappuccini cadé la campana, e fece danno a tre loro celle; cascò pure la campana delli Agostiniani; le chiese delle monache patite, ma di ambi i monasterj i dormitori danneggiati, e così nessuna chiesa, o casa rimasta illesa. Un frate zoccolante, paesano, figlio di Giovanni Caravaglio, morì dopo ore per esserli cascato un muro sopra, di una casella, avanti il palazzo di Pascale Blasi alla marina; il novo seminario precipitato dalla facciata, e così pure tre camere del palazzo di monsignor arcivescovo Madalena. È morta pure avanti la Conserva una figliola di tre anni coricata in letto dormendo, che le cascò la casa sopra; e finalmente, è stato così spaventoso, che ritirandosi il mare, faceansi vedere aperture della terra, et il molo di porta Reale diviso in tre parti; noi col clero capitolare il dì seguente andassimo ad officiare a Santa Chiara, et il dì 25 poi siamo andati alla chiesa delle monache degli Angioli, dove stiamo continuando tutti i preti senza eddomada, e colla pontatura. A 26 detto venne qui il signor Mauro Manieri di Lecce, ingegnere, e mastro Pascale… di Martano, muratore, li quali consigliorno a monsignore Madalena che se ne calasse dal suo palazzo, atteso il pericolo che minaccia/va lo smantellare la chiesa cattedrale, come infatti, il dì 28 se ne calò, e andò a dormire in casa del cantore d. Lazaro Bonavoglia, et si è incominciata a smantellar la chiesa cattedrale; a primo marzo si finì di demolire la prima nave, o sia lamia di mezzo del domo, e la sera si ritirò monsignore arcivescovo in sua casa. Oggi, 3 marzo, si è fatta, dal capitolo con molti regolari, processione di penitenza, partendosi il capitolo dagli Angioli dove officiava, e andò al Santissimo Crocefisso di San Domenico. Per strada si cantarono le litanie di tutti i santi, e nel S. Cristo < dei Domenicani > le litanie; e questa mattina, 4 detto, si è fatta processione a San Paolo per la santissima Concezione al di cui altare si è cantata la messa. Questa mattina, 5 marzo, si è cantata dal capitolo la messa a san Giuseppe in San Benedetto, andando in processione per ringraziamento al Signore per liberazione della morte pel flagello del terremoto.” (P. Cagnes e N. Scalese – Cronaca dei Sindaci di Brindisi 1529-1787. Ed. Amici della De Leo – Biblioteca Del Rotary Club di Brindisi). Una testimonianza veramente eccezionale: il dettaglio che descrive il porto di Brindisi con il livello marino notevolmente abbassato la dice lunga. L’assenza di altre fonti riguardo alla catastrofe proveniente dal mare sarebbe causata dalle paludi che interessavano il litorale all’epoca, che lo rendeva praticamente disabitato. A quanto pare lo tsunami pare esserci stato davvero.
Scrive il prof. Paolo Sansò, docente di Geografia Fisica e Geomorfologia presso l’Università del Salento: “Il 20 febbraio 1743 intorno alle ore 23.30 locali tre forti scosse di terremoto interessarono la Puglia meridionale e le Isole Ionie. L’epicentro del terremoto è stato localizzato nel Canale d’Otranto, a soli 50 km dalla costa orientale del Salento. Questo sisma fu avvertito in un’area vastissima che ebbe come limiti a nord alcune città della pianura padana, a est il Peloponneso, le Isole Ionie e la costa albanese; a sud l’isola di Malta, a ovest Messina, Napoli e Roma. I maggiori danni si registrarono su entrambe le sponde del canale d’Otranto: le località che subirono gli effetti distruttivi più gravi furono Francavilla Fontana e Nardò, in Italia, e Amaxichi, sull’isola di Santa Maura (Lefkáda), in Grecia. In questi centri gran parte degli edifici crollarono o furono gravemente danneggiati; una decina di altre località pugliesi, fra cui Brindisi, Taranto e Bari, subirono gravi danni. Nelle Isole Ionie vi furono più di 100 vittime, secondo quanto affermarono i rappresentanti locali della Repubblica di Venezia che allora governava su quei territori. Alla domanda se vi fu lo tsunami, la risposta è scritta nel paesaggio costiero a sud di Otranto, in corrispondenza di Torre Sant’Emiliano. In questa località abbiamo individuato e studiato un accumulo costituito da centinaia di blocchi calcarei di grosse dimensioni. Il più grande di questi blocchi ha dimensioni di 5×3.5×1.5 m e pesa circa 70 tonnellate. Il rilievo di dettaglio ha rivelato che l’accumulo è costituito da due cordoni di blocchi giustapposti, costituito da elementi embriciati ad indicare univocamente una direzione di provenienza dell’onda da SE-SSE. L’accumulo raggiunge la quota massima di 11 m in corrispondenza della cresta del cordone verso mare; i blocchi più interni sono stati trasportati ad oltre 80 m dalla linea di riva e abbandonati su di una superficie terrazzata posta a 8 metri di quota. La datazione dell’accumulo è stata realizzata mediante analisi con il radiocarbonio su piccole conchiglie marine ritrovate tra i blocchi e confermata da resti di ceramica rinvenuti nel suolo al di sotto di un grosso blocco posto al margine interno dell’accumulo. In sintesi, i dati indicano che il distacco, trasporto e deposito dei blocchi è stato prodotto circa tre secoli fa da almeno due onde di maremoto. La quota massima raggiunta dal maremoto è di almeno 11 metri. Ricerche ulteriori lungo il litorale brindisino hanno permesso di individuare gli effetti di questo maremoto anche a Torre Santa Sabina, una località a nord di Brindisi. Qui la quota massima raggiunta dal maremoto sarebbe stata di soli 1.5 metri. I dati cronologici e geomorfologici confermerebbero quindi l’attribuzione di questo maremoto all’evento sismico del 1743 che ha avuto il suo epicentro poche decine di chilometri a SE di Otranto. La mancanza di documentazione storica sullo tsunami non deve meravigliare se si considera che l’area costiera compresa tra Brindisi e Santa Maria di Leuca, quella interessata direttamente dal fenomeno, all’epoca era completamente disabitata per via delle numerosi paludi costiere e della malaria, ad esclusione del piccolo borgo di Otranto. Inoltre la morfologia della costa, costituita prevalentemente da ripide coste rocciose, nonostante un run-up così elevato, ha determinato l’inondazione di una fascia litoranea molto ristretta. Ultimo elemento da tenere presente è che gli tsunami si propagano molto male nel Mediterraneo a causa della elevata irregolarità batimetrica dei fondali e dell’elevata frastagliatura della linea di costa: ciò probabilmente spiega come gli effetti più evidenti si trovino solo sulla costa immediatamente prospiciente l’epicentro”.
La realtà scoperta dagli scienziati ci deve quindi aprire gli occhi e riconsiderare tutto il nostro approccio all’urbanizzazione delle coste salentine, ritenute erroneamente al riparo da simili rischi che, periodicamente nei secoli, si riproporranno come in passato.
(il testo del prof Sansò è tratto dal sito web meteoweb.eu mentre la carta tematica del Salento, la foto di Leporano e le notizie sui singoli paesi sono tratte da uno studio di Maddalena de Lucia, Rosa Nappi, Germana Gaudiosi e Giuliana Alessio, dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia sezione di Napoli Osservatorio Vesuviano: “Viaggio nella Geologia d’Italia”)
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Buongiorno. Nel precedente commento mi sono espresso male: fino al tardo ‘700 nel nord Italia e fino a inizio ‘800 al Sud, il tempo veniva conteggiato con le “ore italiche”, che andavano da tramonto a tramonto. Il terremoto è effettivamente avvenuto alle ore 23 e trenta di quel tempo, il che corrisponde a mezz’ora prima del tramonto. Siccome al 20 febbraio il sole tramonta alle attuali ore 18, il terremoto è avvenuto per l’appunto verso le ore 17,30 attuali. L’attuale sistema di conteggio delle ore (da mezzanotte a mezzanotte) è quello “francese”, consolidato in Italia con la venuta di Napoleone.
Saluti!
Il terremoto non avvenne a mezzanotte: Le cronache riportarono che “erano le 23 e mezza, or che stava per oscurar il sole”. All’epoca le ore si contavano da 1 a 24 partendo dal tramonto del sole… Il terremoto sarebbe quindi avvenuto intorno alle “attuali” 17,30, mezz’ora prima del tramonto come è il 20 febbraio.
Fonte:
http://emeroteca.provincia.brindisi.it/Studi%20Salentini/1993/fascicoli/Il%20Terremoto%20del%201743%20in%20Mesagne.pdf
Ciao signor Enzo, penso ti riferisci alle prime righe dell’articolo, dove si cita il racconto di Nahi. Però quello è un romanzo, certo tratto da un evento storico, però per forza di cose “forzato” dal tipo di narrazione.